Dal 20 febbraio, Sky Atlantic si tinge delle fattezze cupe e orrorifiche di un palazzo decadente di periferia. Hausen è il titolo del nuovo prodotto Sky Original Germania, che costruisce in 8 episodi una progressiva ipnosi dell’orrore sotto la regia di Thomas Stuber. Niente di più invitante per dare il giusto spazio televisivo al genere horror, confinandolo tra le mura di una casa che vive e respira.
Tra le fauci spettrali di Monster House (2006) e il delirio allucinato e primitivo di High Rise – La Rivolta (2015) – tratto dal cult letterario Il Condominio di J.G. Ballard – Hausen è piena di sorprese. Così il suo invito allo spettatore è quello di scavare famelicamente nel labirinto di luci e ombre per trovare le risposte che cerca. Ma queste appartengono all’egemonia incontrollata della casa. Da oggi, forse, rivaluteremo la celebre espressione “Home Sweet Home“, ripensando alle parole di Caparezza in Compro Horror:
Ma poi la baita dove sei e ti scialli, diventa l’Overlook Hotel di Shining.
Hausen: dove tutto inizia e finisce
Dopo Dark (2017) e la trilogia di Deutschland (2013), la Germania torna inedita protagonista di un mondo sospeso. Così in una periferia buia e indistinta si colloca il caseggiato fatiscente dove si traferiscono il sedicenne Juri (Tristan Göbel) e il padre Jaschek (Charly Hübner), nuovo custode. I due cercano una dimora temporanea dopo il terribile incendio che ha distrutto la loro casa, causando la morte di Anja, madre di Juri e moglie di Jaschek.
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Ma sin da subito l’abitazione non si presenta come un rifugio accogliente. Il riscaldamento non funziona, le luci singhiozzano intermittenti e una misteriosa sostanza vischiosa nera si irradia dalle tubature. Nell’architettura di coinquilini disturbanti e isolati, nessuno sembra accorgersi del degrado latente del palazzo. Finché un tragico evento scuote le anime: il tossicodipendente Scherbe (Daniel Sträßer), assuefatto e distante, perde il figlio neonato nello scivolo dei rifiuti.
La sofferenza come nutrimento
Mentre un pianto sempre più lontano fa eco dalle tubature, Scherbe sembra immemore di quello che è successo, quando invece la compagna Cleo (Lilith Stangenberg) non si dà ragione del trauma. Ed è qui che la casa, una creatura vivente e morbosa, inizia a godere della sofferenza altrui. Come se la sua esistenza fosse connaturata a dilaniare e macerare ciò che di umano resta degli abitanti, vittime di una psicosi abitativa che li rende scheletrici automi.
Tutti infatti sembrano sopravvivere solo attraverso una droga, carbonizzazione del misterioso liquido vischioso. Se inalata, sottopone il tossico a una forma di controllo mentale e spirituale, di cui detiene le fila un barbone stregonesco incuneato nei sudici sotterranei dell’edificio. Si chiama Kater (Alexander Scheer) e la sofferenza è il suo pane quotidiano, anche in vece di una storia personale drammatica e affascinante quanto lacunosa e misteriosa.
Lo scheletro abitativo e umano
Hausen dà voce a una struttura possibilistica e surreale, dove ogni spazio si impregna di parole, gesti e risa disturbanti. Così i volti degli abitanti sembrano rievocare le fattezze dei dipinti espressionisti tedeschi. Scavati, lacerati da un dolore interiore ed espletati in grida senza voce. Sono i rimasugli di una comunità dimenticata dal resto del mondo e abbandonata alla sua distruttiva solitudine.
Nonostante il condominio costituisca un microcosmo, non c’è solidarietà, ma isolamento collettivo. Ogni appartamento è un mondo a sé stante, timorato e diffidente. L’unico elemento di congiunzione è dato dall’ascensore che attraversa tutti i piani, ma non è un ritrovo quotidiano, quanto una trappola soffocante e mortale. L’unico rifugio è quell’intermezzo al sesto piano, che ospita una stanza nascosta dove Juri conosce Ninja (Béla Gabor Lenz) e la sua schiera di giovani spacciatori.
Come ci spaventa Hausen
Come ogni horror che si rispetti, il tocco estetico e stilistico vuole la sua parte. Così l’atmosfera cupa, giocata sulla brillante intermittenza del sistema elettrico, invoglia la fame di sapere. Il delicato equilibrio si gioca sul vedo-non vedo, così che la serie lascia presagire qualcosa che però non mostra. La suspense dimora quindi nell’ambiguità e nell’effetto destabilizzante che ne consegue.
In questo modo la potenza comunicativa ed evocativa sta nello scatenare domande di cui non si avranno immediate risposte. Forse, non si avranno mai. Tutto rimane estremamente vago, in un labirinto che non offre il desiderio di evadere, ma di rimanervi invischiati per dare forma ai propri dubbi. Così, la trama diventa sempre più pregna e densa, ma lascia interrogativi irrisolti, volutamente vaghi.
Una velata denuncia sociale
Le creature fragili e decrepite che attraversano la storia, perse nel loro limbo esistenziale, parlano da sé. Non c’è nessuno che si prenda cura di loro, come se il condominio fosse stato abbandonato al suo stato di tumescenza e decomposizione. Dove sono le istituzioni e il servizio sanitario, dove dimora l’amministratore e dove risiede quella scuola in cui sembra recarsi solo la giovane Loan (Andrea Guo)?
Nessuno invoca aiuto perché non ne è più capace. I volti dei condomini non hanno più consistenza e si perdono in quella compagine di rifiuti umani che la società vuole nascondere ai margini della città. Non a caso la location scelta è un vecchio ospedale abbandonato di Berlino, perfetto per tratteggiare l’abbandono involontario che unisce le anime perdute degli inquilini.
Hausen: perché abbiamo bisogno dell’horror
Con Hausen l’horror approda nella serialità televisiva di Sky. E non possiamo che esserne grati, per l’omaggio a una sperimentazione di genere che appaga la vista e la stimolazione sensoriale. Un prodotto di qualità, che si accosta alla cura del dettaglio delle produzioni Sky Original. Così la canonica casa degli orrori non si appoggia al classico caso di infestazione demoniaca, ma va oltre.
Dopo un anno di chiusura domestica a causa della pandemia largamente conosciuta, l’orrore esterno si coagula all’interno. In quella dimora sicura dai pericoli che si pone in primo piano come nemico e fautore delle paure più recondite. Queste vengono finalmente a galla, in uno stato di sofferenza collettiva che rende l’uomo vittima delle sue stesse angosce. Così possiamo capire quando Caparezza canta “Compro Horror, ne sono ingordo” e desideriamo lasciarci avvolgere da quello sconosciuto domestico.
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