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«Honey Boy»: il film sull’infanzia di Shia LaBeouf

7 minuti di lettura

Avremmo dovuto vederlo sul grande schermo lo scorso marzo, invece Honey Boy è ora disponibile per il noleggio su alcune delle principali piattaforme streaming (Chili, Rakuten, iTunes e Infinity). Nonostante non abbia fatto in tempo ad uscire nelle sale italiane, il film ha avuto modo di far parlare di sé sin dalla sua anteprima, in occasione del Sundance Film Festival, nel gennaio dello scorso anno, e, ad ottobre, durante la Festa del Cinema di Roma.

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Diretto da Alma Har’el, il film si propone come semi-autobiografia di Shia LaBeouf, che ne ha scritto la sceneggiatura e ne è uno dei protagonisti.

Un inedito Shia LaBeouf

Honey Boy

Fin dal suo precoce esordio nel mondo dello spettacolo, Shia LaBeouf non ha mai smesso di far parlare di sé, che fosse per il suo ultimo ruolo, in seguito ad alcuni singolari esperimenti nell’ambito dell’arte performativa, o a causa delle numerose (dis)avventure personali, spesso dovute all’abuso di sostanze.

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Considerate tali premesse, la scelta dell’attore di scrivere un film sulla propria infanzia e di interpretare, all’interno di esso, il ruolo del proprio padre, poteva sembrare l’ennesima stravaganza da parte di un artista eccentrico ed imprevedibile. Ma Honey Boy è un’altra cosa. Scritto prendendo spunto da alcune riflessioni emerse durante un periodo in riabilitazione, il film gronda dell’intimità del suo sceneggiatore, portando sullo schermo una storia a tratti cruda, personale e struggente, frutto di un percorso curativo e catartico.

«Honey Boy», la trama

Honey Boy

Otis (Lucas Hedges) è un giovane attore spesso protagonista delle prime pagine dei giornali, non tanto per le anteprime dei suoi film, quanto per i numerosi scandali a base di alcol e droga. Dopo l’ennesimo arresto, il ragazzo viene mandato in un centro di riabilitazione. Qui comincia un viaggio di scoperta e consapevolezza, che lo porterà a ricordare quei traumi che, mai seriamente affrontati, l’hanno gettato nel tunnel di dolore e disagio nel quale si trova intrappolato. 

La seconda linea temporale sulla quale si muove il film è dunque quella del passato. In particolare, viene narrato il periodo in cui Otis, solo dodicenne (Noah Jupe), ha vissuto nella stanza di un motel con il padre James (Shia LaBeouf). Sarà proprio il disfunzionale rapporto tra i due a turbare il ragazzo e a segnarne ineluttabilmente l’esistenza.

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James, ex clown da rodeo, pregiudicato, alcolista e tossicodipendente, in mancanza di un lavoro stabile, è costretto a dipendere completamente dal figlio, che si sta lentamente affermando nel mondo del cinema. Tale innaturale inversione dei ruoli e una malsana gelosia per un successo che lui ha sempre solo potuto sognare sembrano impedire a James di provare amore per Otis, il quale, da parte sua, rinuncerebbe volentieri a qualsiasi ruolo in cambio di un solo gesto di affetto.

Una regia intimista

Honey Boy

Nel panorama televisivo e cinematografico non mancano storie come quella narrata da Honey Boy, che trova la sua reale forza e singolarità nella regia di Alma Har’el. L’artista, per la prima volta alle prese con un film “di finzione”, fa tesoro della sua esperienza di stimata documentarista, evitando con intelligenza qualsiasi – inevitabilmente ridondante – deriva retorica.

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Il film, poi, non pretende di stipare in 94 minuti l’intera vita del suo protagonista, ma procede seguendo il racconto di una quotidianità tormentata, soffermandosi sui particolari e lasciando invece allo spettatore il compito di ricostruire una visione di insieme. 

In Honey Boy, i personaggi si muovono quasi esclusivamente tra due luoghi: il set dove Otis lavora e l’angusta stanza del motel dove lui e James vivono. Tale ristrettezza degli spazi fa risaltare ulteriormente la natura profondamente intima della storia. Intimità rimarcata anche dalla particolare scelta dei momenti della giornata: l’intero film, infatti, si svolge durante tramonti color ocra e lunghe nottate fiocamente illuminate da luci rosa a led.

«Honey Boy»: un film fatto di volti

Nonostante le controversie che lo hanno coinvolto, Shia LaBeouf aveva da tempo dimostrato, tramite numerose interpretazioni, le sue ottime capacità attoriali e il ruolo di James Lort non fa eccezione. Abile nel non cedere alle esagerazioni nel ritratto di un uomo insicuro e violento, LaBeouf riesce a coglierne la complessità, rendendo persino possibile una – seppur parziale – empatia nei confronti di un personaggio altrimenti inappellabilmente detestabile.

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Dopo Manchester by the Sea, Boy Erased e Ben is Back, Lucas Hedges si conferma il viso perfetto da prestare a protagonisti introversi e tormentati, mentre il giovanissimo Noah Jupe, alle prese con un ruolo particolarmente intenso, dimostra talento e sensibilità.

Doveroso, infine, nominare Tahliah Debrett Barnett (in arte FKA Twigs): unica presenza femminile significativa del film, è in grado di diradare, con la sua dolcezza, la fitta nebbia di mascolinità tossica che avvolge, accecandoli, i protagonisti.


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Classe 1996. Laureata in Filologia Moderna, ama stare in compagnia degli altri e di se stessa. Adora il mare e le passeggiate senza meta. Si nutre principalmente di tisane, lunghe chiacchierate e pomeriggi al cinema.

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