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I cancelli del cielo, nel ballo della fantasia con Michael Cimino

6 minuti di lettura

Ormai è un automatismo, quando si parla de I Cancelli del cielo (Heaven’s Gate), ripetere le stesse frasi: il film che ha fatto fallire la United Artists; il più grande flop della storia del cinema; il film che ha chiuso definitivamente l’esperienza della New Hollywood degli anni Settanta, aprendo le porte ai Blockbuster anni ’80. Solo l’ultima affermazione si avvicina alla realtà, che è però realtà di un sistema giunto ormai al collasso.

i cancelli del cielo

La storia de I cancelli del cielo non è solo frutto di un Genio incompreso. Tratta anche di umana hybris, di decisioni sbagliate al momento sbagliato.

Nel 1980 Michael Cimino è ancora il regista pluripremiato de Il cacciatore, ma i ritardi nella realizzazione del suo nuovo film, per il quale ha carta bianca dalla United Artists, agitano i pettegolezzi sulla sua personalità capricciosa e viziata. Quando poi, dopo otto mesi di montaggio, Cimino mostra ai produttori il risultato finale, è uno schianto: 5 ore e 25 minuti in totale, quando l”impegno contrattuale prevedeva un massimo di 3 ore. È evidente che qualcosa non ha funzionato e già si parla di eccessi smisurati: scene girate oltre 50 volte; set abbattuti e ricostruiti a grandezza naturale; crudeltà sugli animali coinvolti.

i cancelli del cielo

Si dà allora un nuovo taglio – di 220 minuti – un’uscita limitata nelle sale che mostra però definitivamente il volto del disastro. Le reazioni sono impietose e scandalizzate da tutte le parti. Film demolito, da dimenticare. La United Artists, ormai in rosso, viene comprata da MGM. Ma già alla presentazione al Festival di Cannes, sebbene in un montaggio alterato, il vento dell’opinione inizia a cambiare, tanto che ad oggi viene riconosciuta come un’opera imprescindibile. Ma di che diavolo tratta dunque, quest’epico e maledetto colosso?

Un film totale

i cancelli del cielo

I cancelli del cielo contiene di tutto. Ogni possibile contrasto rimane emerso e non si risolve. La storia si svolge nel Wyoming, terra tra cielo e inferno, dove lo sceriffo James Averill (Kris Kristofferson) lotta al fianco dei contadini europei immigrati, oppressi dagli allevatori che assoldano mercenari per reprimere ogni pretesa. Averill si ritrova contro il vecchio amico di Harvard Billy (John Hurt) e il pistolero Nate Champion (Christopher Walken), contro il quale gareggia per l’amore della prostituta Ella (Isabelle Huppert).

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Ci si trova di fronte a dicotomie che vengono trascese in inquadrature metafisiche, al di là del nostro tempo. Un classicismo in cui il tempo via via si dilata, si contrae e di distende, come fa la vita. Poi c’è il tempo cronologico della storia: 1890. Una data fondamentale per l’America: la chiusura della frontiera, la fine del West e l’inizio del mito Western.

La guerra tra l’associazione degli allevatori e la contea di immigrati a Johnson County riassume ogni paradigma americano. Un film spietatamente anti capitalista, che non lascia scampo al mito della proprietà privata, bagnata dal sangue e concimata con la pelle di uomini e donne sacrificati.

Il ballo della vita

i cancelli del cielo

I cancelli del cielo è una chiasmatica danza, un’immagine in continuo divenire che sempre e nuovamente ri-significherà. Si danza. Come nella sequenza della danza studentesca a Harvard. Si danza. Come nella speculare sequenza della festa proletaria. Si danza. Come Averill ed Ella. Si danza. Come nella scena della battaglia finale, un girotondo che riprende, ribalta, primitizza la scena iniziale.

È la danza di iniziazione alla vita per un accademico. È la danza a Heaven’s gate (il nome della sala da ballo) di uomini e donne che vivono, per quel poco che hanno, un momento di estasi collettivo. È la danza di due innamorati, che vedono la reale possibilità di un futuro. È la danza funebre e macabra della guerra, che chiude ogni speranza ne I cancelli del cielo

I cancelli della speranza

I cancelli del cielo. I cancelli sono limiti ed i limiti definiscono le identità. L’associazione degli allevatori nega i limiti che gli immigrati ricercano con il loro piccolo appezzamento di terreno. La proprietà privata è il fondamento dell’America, un fondamento identitario di continue guerre, soprusi, negazioni al riconoscimento altrui. Probabilmente il rifiuto della critica americana si deve leggere in quest’ottica.

Sono limiti che il Wyoming, aperto e sconfinato quale è, toglie, ma che la comunità riconsegna: lo sceriffo, la puttana, l’allevatore, l’immigrato, il mercenario. Ogni limite è ben definito, nessuno riuscirà a sfuggirgli. È un limite sociale, molto più forte di qualunque sbarra o staccionata.

Il limite del cielo. Dove le speranze ed i sogni, di una comunità così come di un regista, possono sconfinare. Ma bisogna fare attenzione. Cimino travalica ogni cancello consentito, si proietta in uno spazio immaginativo fuori misura e si perde. Perché i limiti ci identificano e Cimino non si identifica più, accetta il lancinante compromesso: essere oltre l’umano e non poter più rientrare.


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Amo le storie. Che siano una partita di calcio, un romanzo, un film o la biografia di qualcuno. Mi piace seguire il lento dispiegarsi di una trama, che sia imprevedibile; le memorie di una vita, o di un giorno. Preferisco il passato al presente, il bianco e nero al colore, ma non disdegno il Technicolor. Bulimico di generi cinematografici, purché pongano domande e dubbi nello spettatore.

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