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I Dannati

I Dannati, meridiano di silenzio

7 minuti di lettura

Secondo lo storico del cinema Bill Nichols esistono diverse modalità narrative dei documentari: una di queste è la modalità rappresentativa, che fra le altre cose prevede l’utilizzo delle cosiddette “sequenze ricostruite”. In altre parole, di filmati recitati da attori nei quali si va a rappresentare attraverso la finzione ciò che per motivi logistici sarebbe stato impossibile riprendere veramente.

L’esempio più classico è quello delle ricostruzioni storiche, usate in programmi televisivi per inscenare periodi lontani nel tempo con maggiore efficacia: a tutti sarà capitato di fermarci a osservare queste pantomime televisive nel mezzo di una puntata di Superquark o di qualche documentario della BBC; le caratteristiche più comuni fra queste ricostruzioni sono ovviamente l’accuratezza storica, una scarsa capacità attoriale degli interpreti e una ancora più scarsa prestanza degli scrittori.

I Dannati, premio Un Certain Regard per la miglior regia a Cannes 2024, di poco si scosta da questi dogmi della rappresentazione documentaristica alla History Channel. Per meglio capire dove si è sbagliato, forse bisogna prima fare un passo indietro e conoscere il lavoro dell’uomo dietro la macchina da presa, Roberto Minervini.

Roberto Minervini prima de I Dannati

I Dannati una scena del film di Roberto Minervini

Roberto Minervini si era non a caso già confrontato con il genere documentaristico: da The Passage (2011) fino al più recente What You Gonna Do when the World’s on Fire? (2018), il regista aveva sempre indagato i lati più nascosti degli Stati Uniti d’America, con uno stile sobrio nell’esposizione ma generalmente molto curato nella forma. L’esempio più alto di questo è Lousiana: The Other Side (2015), nel quale seguendo le vicende di uno spacciatore e della sua famiglia, Minervini ci porta nell’entroterra di un paese spaccato in privilegiati e abbandonati.

The Other Side è certamente degno di nota per l’insistente utilizzo dei silenzi, per come la narrazione è finemente guidata tramite il montaggio, per come Minervini sembra rifarsi all’esperienza di Fredrick Wiseman e al suo direct cinema, nel non farsi notare e far scordare il soggetto ripreso della sua presenza. Oltre a questo, il film è anche tematicamente degno di nota: l’argomento trattato oltre che alquanto avvincente, denota anche una seria autorialità, il ritorno costante di temi attraverso tutto il lavoro del regista, in particolare dell’abbandono, delle contraddizioni americane e della povertà più assoluta. Tutte questioni che ritorneranno anche ne I Dannati.

Quei dannati tempi dilatati

I Dannati

Se il debutto alla regia di finzione di Roberto Minervini continua il suo percorso autoriale nell’esplorazione dell’America – i protagonisti fanno parte di un manipolo di soldati nordisti abbandonato a sé stesso durante la Guerra di Secessione – lo fa anche da un punto di vista formale: ne I Dannati non si sente lo scarto fra finzione e documentario. La regia alterna campi larghi e camera a spalla, camera che quasi sempre segue senza nessun guizzo creativo interessante, come nel più pedissequo dei documentari televisivi e non viene certo supportata da un impianto narrativo particolarmente solido o da una scrittura degna di essere definita brillante.

Pare proprio che Minervini non abbia trovato la sua voce per mettere in scena invece che semplicemente riprendere: se questi tempi dilatati e questa semplicità tecnica continuano a funzionare nei documentari è perché la mera nozione di autenticità rende i soggetti ripresi interessanti per lo spettatore. In assenza dell’investimento emotivo del pubblico dovuto alla natura stessa del documentario, l’autore avrebbe dovuto lavorare per costruirlo con gli strumenti della narrazione e della messa in scena, che invece non superano appunto quelli di una rievocazione storica per la televisione.

I Dannati è un cinema vuoto

Certo, la fotografia e il sonoro sono decisamente cinematografici e qualitativamente nulla hanno da spartire con il televisore, ma certamente non possono nascondere l’assoluta vuotezza di un prodotto come I Dannati. Per quanto gli scarsi dialoghi provino a mettere in gioco temi come la fede personale e la fede nella patria, la mortalità umana e la natura della violenza, non c’è mai abbastanza carne al fuoco e tutto resta un abbozzo superficiale.

L’esempio principe di questi errori è la sequenza iniziale: due lupi spolpano una carcassa; quella che per i primi secondi pare un’immagine metaforica, simbolo della guerra fratricida americana, per la lunghezza e l’incapacità di caricare emotivamente la scena si trasforma presto nell’inquadratura di un qualsiasi documentario naturalistico. Si voleva fare The Revenant e si è ottenuto Attenborough.

Come scriveva Godard: “ogni grande film di finzione tende al documentario e ogni grande documentario alla finzione.” Ma nel caso specifico de I Dannati quelle del documentario sono caratteristiche che incatenano il prodotto e più che impedirgli di avere una voce propria, gli negano una voce in primo luogo. Non viene che da chiedersi come la giuria di Cannes abbia potuto premiare un film così fiacco, così appesantito dalla propria narrazione e così assorbito dal mostrarci nella loro interezza tutti i gesti storicamente accurati con cui si legavano i cavalli, ricaricavano le armi e passavano le giornate nel 1860.


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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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