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I miserabili, il brillante esordio di Ladj Ly

4 minuti di lettura

Nella sua prima prova registica di un lungometraggio, Ladj Ly riprende il motivo di un suo precedente cortometraggio omonimo del 2017, I miserabili.

Il film trae chiaramente ispirazione dalle rivolte popolari in strada di Parigi del 2005 e ad altri fatti realmente accaduti. Ladj Ly è nato e cresciuto, anche come regista, nel sobborgo di Montfermeil, da cui può trarre la stoffa per il proprio racconto. Trae ugualmente ispirazione dall’omonimo romanzo popolare di Victor Hugo, del quale usa l’ambientazione e una didascalia finale, e soprattutto le motivazioni più profonde.

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Un esordio che non è passato inosservato, dato che, al Festival di Cannes 2019, ha ottenuto il Premio della giuria, presieduta da Alejandro González Iñárritu. Candidatura Oscar e Golden Globe come miglior film straniero. European Film Awards per la miglior sceneggiatura

«I miserabili», trama

I miserabili

Montfermeil, periferia parigina. Stephane (Damien Bonnard) è stato assegnato all’unità operativa Anti-Criminalità di Montfermeil, nella banlieu 93, che tenta di garantire un equilibrio nel sobborgo. Il rapporto con i suoi nuovi colleghi non decolla, ma la situazione diventa impossibile quando un drone li riprende in abusi di potere nei confronti di un gruppo di adolescenti.

Conflitto perenne

I miserabili

Fin dalle prime immagini, emerge una situazione di tensione. Il film diventa così un lungo climax ascendente, che porterà all’esplosione di una vera e propria guerriglia. Gli schieramenti sono molteplici. Dall’istituzione statale, rappresentata da poliziotti dai metodi arbitrati, al «Sindaco», boss del quartiere, ai Fratelli Musulmani e il loro leader, Salah. Senza dimenticare i gitani del circo.

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In questo marasma, lo spettatore non ha vita facile nella scelta della posizione da patteggiare: il film è multifocale, non riconduce mai ad un’unica giusta via di esperienza, ma si muove sempre nel confine sottile che si stabilisce tra le diverse posizioni. Poliziotti contro delinquenti, ma anche gang in lotta tra di loro, in uno scontro morale, prima che civile.

Il tramonto che arriva a seguito dell’infernale giornata lavorativa dei tre poliziotti porterebbe a pensare in un finale conciliativo. E invece scatta poi la scena finale, emblematico riferimento alle rivolte popolari del 2005, per rimettere tutto in discussione, per dire che la guerra non è finita, non alle condizioni decise con coercizione.

Pedagogia fallita

I miserabili

La citazione dal romanzo di Victor Hugo è emblematica delle finalità del film. «Non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori». La dimostrazione chiara e limpida passa per i due ragazzi che, per motivi diversi, diventano essi stessi punti focali del film, forse i più interessanti.

Issa e Buzz sciorinano le loro giornate con passatempi tra i più diversi e discutibili, completamente ignorati dai genitori, troppo presi con le vicende di sopravvivenza personali. In continuo contatto con adulti inadatti a veicolare messaggi positivi.

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Ma il grande assente è lo Stato. Quello che dovrebbe presidiare e indurre le nuove leve verso aspirazioni buone. Quello che dovrebbe coltivare le proprie erbe, per evitare che diventino cattive. Una realtà sociale che invece presenzia soltanto mediante forza, repressione e accordi impliciti con i boss del quartiere. In una situazione di oligarchia auto proclamata, diventa inevitabile la stanchezza, il nervosismo, la rivolta di ragazzi che chiedono soltanto dei buoni contadini.


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Amo le storie. Che siano una partita di calcio, un romanzo, un film o la biografia di qualcuno. Mi piace seguire il lento dispiegarsi di una trama, che sia imprevedibile; le memorie di una vita, o di un giorno. Preferisco il passato al presente, il bianco e nero al colore, ma non disdegno il Technicolor. Bulimico di generi cinematografici, purché pongano domande e dubbi nello spettatore.

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