I titoli che vorrei (2020) di Sarah Signorino è uno dei corti selezionati da Women in Film per il Filming Italy Sardegna Festival. Un’opera onirica, nata come progetto audiovisivo da affiancare alla tesi di laurea dell’autrice su Il viaggio di G. Mastorna, l’incompiuta pellicola felliniana.
I titoli che vorrei: un mockumentary sul senso della fine
Tutto ha il sapore della mancanza in questo mockumentary che ha seguito il proprio destino, fuggendo i limiti delle categorie per situarsi nello spazio del “non”: non un docufilm, non un’intervista, non un ritratto biografico. La voce narrante della regista ci accompagna in un viaggio a ritroso nel tempo, aiutata dalle parole dell’uomo che incontra: un vecchio amico del nonno, un artista che lavora con il colore e il tratteggio.
È nel suo sguardo sfuggente, nelle risposte dure, laconiche, che si colloca il senso del fallimento. Come un automa difettoso, questo personaggio per metà reale fa andare in folle il decorso dell’indagine “storica”, assomma in sé i tratti del sonno e della veglia, in un continuo rimpallo tra ricordi e rimpianti. La memoria – fallace, episodica – conserva immagini inscurite dal tempo, o ancora bagliori che rendono accettabile la turpitudine, la colpa di aver abdicato a se stessi.
I titoli che vorrei, un discorso sul reale e sull’arte
I titoli che vorrei, efficacemente tradotto con The titles I’m dreming of, è un film di silenzi, di reticenze, di dubbi sul reale e l’irreale (“Tutta questa irrazionalità che regna in questo mondo io non l’ho mai capita, preferisco starne fuori“) sollevati dalla parola, dall’immagine che decide non solo cosa sia la realtà ma persino se essa sia tale o meno. La presenza discreta della regista, a cui il protagonista si sottrae parlando per lampi, bagliori, espressioni del viso, è il punto di raccordo tra quella vita e il percorso sognato, tra una certa idea di cinema e la sua de-realizzazione: “Se volete credere a cose che non esistono bene, accomodatevi. Altrimenti scappate, finché siete in tempo”.
Il teatro della scena, sebbene riconoscibile (una bottega d’artista, con le pareti piene di schizzi, serigrafie), è volutamente sfumato, quasi a sottolineare la centralità delle azioni, del pensiero.
Il personaggio-regista, che l’autrice continua a interrogare, è psicologicamente caratterizzato dalle parole che non dice, dagli impercettibili scatti del viso accarezzati dalla camera. Così l’opera, nata con un intento preciso, finisce col diluirsi in un discorso sull’arte, sul rapporto tra scelte di vita e bisogni “d’amore” (“O il film o il figlio. Certo che scelgo il film, è il figlio che aspetto da una vita”). E ancora, sull’imprevedibile corso degli eventi: “Dopo poco l’inizio della lavorazione, mia moglie ha partorito prematuramente la nostra bambina. È vissuta poche ore. E così non ho avuto né il film, né il figlio”. Mentre l’uomo parla la troupe del film si affaccenda intorno; è lo scarto tra la finzione e il reale, la rottura dell’incredulità.
I titoli che vorrei, ovvero il racconto di un’assenza
I titoli che vorrei è dunque un’opera metacinematografica sul fallimento del progetto iniziale, ma è anche il racconto di un’assenza, la testimonianza di chi esiste senza più osare – di chi vive, pur da sopravvissuto all’angoscia, con il peso di una mancanza invisibile.
Il corto è disponibile su Mymovies (previo invito) per la durata del Filming Italy Sardegna Festival.
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