Tra i cinque film italiani in concorso c’è anche la terza opera di Michelangelo Frammartino, Il buco. Il giovane regista milanese, dalle origini calabresi, lascia la sua impronta silenziosa anche alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, portandoci nell’Italia dei primi anni 60. Sempre con un tocco bucolico e rurale, ci narra di una importante scoperta speleologica nella sua amata Calabria.
Il buco: alti e bassi dell’Italia del boom economico
È il 1961 e a Milano è appena stato costruito l’edificio più alto d’Europa, il grattacielo Pirelli. In pieno boom economico ed espansione industriale, la città si riempie e si anima e costituisce il fulcro dell’economia e della vita del Paese. Ma, proprio andando contro corrente, il regista, decide invece di ricostruire le vicende di un gruppo sparuto di speleologi che partono all’esplorazione dell’abisso del Bifurto. Dalla punta del Pirellone, Frammartino, ci porta dunque nelle claustrofobiche cavità della grotta che allora risultava essere la terza più profonda al mondo; ben -687 metri.
Il gruppo di giovani studiosi inverte l’esodo verso il prospero nord Italia dirigendosi nell’ormai sempre più abbandonato Meridione. Unico spettatore silenzioso dell’impresa un immancabile pastore e il suo bestiame, ormai firma di Frammartino. Il regista si (e ci) interroga sulle conseguenze delle scoperte scientifiche, anch’esse forse prodotto ognuna del suo tempo. Così come la novità e l’avanguardia si propagano nella Pianura Padana e nelle grandi città, così anche la luce del progresso irrompe nelle tenebre delle grotte, portando i suoi metodi e le sue misurazioni in terra di nessuno. Anche la ricerca diventa profanazione classificatrice volta alla sottomissione, allo sfruttamento e alla colonizzazione della montagna ancora inesplorata e selvaggia.
Il buco come punto d’incontro tra cinema, speleologia e psicoanalisi
Frammartino definisce le grotte un fuori campo assoluto. Sono ostili alla cinepresa perché sono le tenebre dei loro anfratti a decidere cosa svelare e cosa lasciare celato. Ed è così, avvolto nel buio della pancia della terra, che il regista ha realizzato Il buco. L’oscurità non ha vanità, ti fa muovere secondo i tuoi bisogni, ed è proprio immerso in essa che deve rimanere lo spettatore durante la visione; come anch’egli parte di quella claustrofobica discesa. Ciò che intriga Michelangelo è proprio la vocazione della scomparsa. La possiamo intravedere nella scelta di un cast di speleologi, per definizione coloro che si nascondono e che scompaiono, che non hanno ambizione di essere visti.
Anche la discesa, l’intero viaggio, è un capovolgimento sul livello del mare. Alla luce del sole la scalata di una montagna è qualcosa di trionfante che ripaga gli sforzi e la fatica con una vista mozzafiato sul suo punto più alto. Invece andando ad indagare le profondità della terra, l’arrivo è la sconfitta, è la fine malinconica e umida di un viaggio che era nato senza pretese ed aspettative alcune. L’esplorazione del buio quindi inteso come spazio fisico, artistico e mentale unisce tre discipline che affascinano Frammartino ed egli cerca di farle convergere e tradurle su pellicola con Il buco.
Oltre la superficie della montagna
Nell’approcciarsi a Il buco, Frammartino, voleva qualcosa di più rispetto ai suoi lavori precedenti. Aveva dato della montagna, che sempre è stata centrale nelle sue opere, un’immagine solamente superficiale, da intendersi qui come “di superficie”. La speleologia è risultata quindi la risposta per una conoscenza più vera, intima e profonda della montagna. Accostandosi alle grotte ci si fa ospiti, assumendo andamenti e posizioni inusuali per adattarsi alle forme della roccia. Nessun automatismo è più scontato e ogni senso risulta alterato, deformato. Nemmeno lo scorrere del tempo rimane lo stesso, annientato dal buio perenne. L’adattamento diventa presto simbiosi e da semplici osservatori si raggiunge un’ideale fusione con la terra.
Durante i silenzi narrativi di questa pellicola la mente vaga, facendo diventare Il Buco tutt’altro che muto. Complice l’oscurità in cui si è avvolti in sala, anche lo spettatore scava ed esplora le profondità della terra e della sua mente. Ma non è una discesa inquietante. Il legame con la superficie, con ciò che conosciamo e che ci rassicura, è saldo, rappresentato dal miglior esperto della montagna, il pastore.
In questa opera complessa, Frammartino, sfoggia le sue abilità registiche. Nei suoi campi fermi sembrano distrattamente accadere avvenimenti di ogni sorta e lui si limita a rubarli, come anch’egli uno spettatore silenzioso. Nessun virtuosismo impreziosisce la visione, che basta a se stessa grazie ad un attento studio del territorio. Il buco, semplice ed introspettico, si situa al confine con il cinema sperimentale, rappresentando un’opera particolare; forse non godibile per tutti ma certamente interessante.
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