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In nome del cielo è un grande fallimento narrativo

La miniserie di Dustin Lance Black sui fratelli Lafferty è tutta esposizione e niente sostanza

16 minuti di lettura

Negli ultimi mesi, Hulu ha sfornato instancabilmente nuove miniserie true crime, animando discussioni e ottenendo diverse candidature agli Emmy: si vedano Pam & Tommy, incentrata sul furto del tape di Tommy Lee e Pamela Anderson; The Dropout, su Elizabeth Holmes e lo scandalo Theranos; The Girl From Plainville, che racconta la storia dietro lo scabroso caso di Michelle Carter. A queste si è aggiunta In nome del cielo (Under the Banner of Heaven), disponibile dallo scorso aprile negli USA e dal prossimo 31 agosto in Italia su Star su Disney+.

I sette episodi sono nati dalla penna di Dustin Lance Black (Milk, When We Rise) e si basano sull’omonimo libro del 2003 di Jon Krakauer (anche il suo Nelle terre estreme è stato trasposto, cinematograficamente, con Into the Wild), che racconta il brutale delitto compiuto da Dan e Ron Lafferty ai danni di Brenda Wright Lafferty e sua figlia di 15 mesi, Erica. Entrambi gli autori provengono da ambienti mormoni, ma se Karakauer è riuscito a offrire un ritratto spaventosamente lucido sul crimine, le sue implicazioni e il retroterra storico, sociale e religioso in cui è potuto accadere, Black ha completamente perso di vista i nodi principali della vicenda, oltre che un’importante occasione.

Prima di cimentarci nell’analisi de In nome del cielo, è importante parlare della storia del mormonismo e del fondamentalismo che spesso ne deriva e che sta alla radice del caso in questione. L’articolo include spoiler!

Le origini del fondamentalismo mormone

In nome del cielo

Il mormonismo è stato fondato nella prima metà dell’Ottocento nella zona occidentale dello Stato di New York da Joseph Smith. L’uomo affermava convintamente di ricevere delle rivelazioni da Dio, che ha messo per iscritto nel Libro di Mormon e che hanno dato vita alla cosiddetta Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, anche indicata con l’acronimo LDS. L’assunto principale del mormonismo è che la seconda venuta di Cristo sia imminente e ai suoi seguaci (per questo chiamati Santi degli Ultimi Giorni) è dato il compito di preparare la Terra in vista del grande evento.

L’aspetto che in un primo momento ha contribuito al successo di questa religione era che chiunque, in teoria, potesse ricevere rivelazioni e quindi intrattenere un rapporto intimo col Creatore. Nei fatti, Smith, resosi conto che un simile presupposto delegittimava la sua leadership, si è affrettato ad aggiungere che il Signore gli aveva rivelato che solo ciò che riferiva a lui fosse valido. Ma era già troppo tardi e, nonostante la Chiesa mormone ancora oggi si fondi su un sistema di successione presidenziale, sono in molti a ritenere di sentire la “voce calma e sommessa” di Dio.

Tra questi, Dan e Ron Lafferty. Le loro vite procedevano tutto sommato con tranquillità, all’insegna dei valori religiosi, finché il primo non si è imbattuto in un piccolo libro del 1842 scritto da Udney Hay Jacob, dal titolo Peace Maker, che l’ha spinto verso il fondamentalismo. L’opera legittima sostanzialmente la poligamia, anche definita matrimonio spirituale o plurimo, ed era stata approvata ai tempi dallo stesso Joseph Smith, che voleva forse tastare il terreno per vedere come avrebbero reagito i fedeli a un simile cambio di direzione del mormonismo. Le critiche sono state asprissime e il profeta ha dovuto negare il suo coinvolgimento nella pubblicazione; in segreto, però, adescava bambine e adolescenti dicendo loro che il Signore gli aveva rivelato che avrebbero dovuto sposarlo e farci dei figli assieme.

In nome del cielo: il fanatismo dei fratelli Lafferty

Smith, dunque, credeva nella poligamia, che in questo contesto era più una messa in atto di comportamenti violenti, manipolatori, pedofili e profondamente misogini: secondo Peace Maker, infatti, solo gli uomini possono avere molteplici partner, mentre le donne devono rispettare la loro “rightful position” di mogli sottomesse. Dire tutto questo ad alta voce significava però mettere il mormonismo in una posizione scomoda, e oggi la LDS rinnega ufficialmente la poligamia. Eppure, esistono non poche comunità mormoni che la praticano, specie quelle fondamentaliste. Il motivo è chiaro: se l’ha detto Joseph Smith, allora è il volere di Dio. Questi gruppi si pongono in atteggiamento di aperta ostilità rispetto alle istituzioni e disprezzano l’autorità massima della Chiesa mormone per la scelta secondo loro ipocrita di non seguire fino in fondo gli insegnamenti del primo profeta.

Così è stato per Dan Lafferty, che dopo la lettura di Peace Maker è riuscito a convincere gli altri fratelli che quella del fondamentalismo fosse la strada giusta. Le conseguenze sulle loro mogli sono state devastanti, al punto da richiamare Ron, che intanto viveva nello Utah con la moglie e i figli, in Arizona per sistemare la situazione. Ma anche lui, ascoltando i discorsi di Dan, ha finito per convertirsi, perdendo di conseguenza la famiglia che aveva costruito. Ron ha inoltre iniziato a sostenere di ricevere rivelazioni, che metteva per iscritto. Una di queste, avuta nel 1984, gli ordinava di espiare nel sangue (altro concetto di derivazione mormone) alcune persone che intralciavano la strada del Signore. La lista includeva appunto anche Brenda e la figlia, sostanzialmente perché la prima era una figura femminile che, pur essendo molto religiosa, era anche meno incline alla sottomissione e supportava le mogli dei Lafferty.

Ma in tutto questo, dov’era Allen, marito di Brenda e fratello minore di Ron e Dan? Dalla risposta a questa domanda emerge la prima, enorme crepa de In nome del cielo.

Problemi di fede (e di fedeltà)

In nome del cielo

In genere, chi scrive serie o film basati su fatti realmente accaduti tende ad apportare una serie di modifiche volte a consentire allo spettatore di fruire di un prodotto che sia il più lineare, fluido e intrigante possibile. Nel far ciò, spesso idea dinamiche plausibili per coprire alcune lacune inconoscibili negli eventi originari o dare una certa prospettiva al racconto. Se usata bene, questa strategia può rivelarsi persino arricchente, ma In nome del cielo se ne abusa, al punto da dimenticarsi dei fatti reali.

Protagonista della storia è il detective Jeb Pyre (Andrew Garfield), ispirato all’esistente Terry Fox ma sostanzialmente di fantasia, che assieme al collega Bill Taba (Gil Birmingham) ha il compito di indagare sull’omicidio. Mentre si trovano sulla scena del crimine, compare Allen (Billy Howle), ricoperto di sangue dalla testa ai piedi. Da qui ha inizio un lungo interrogatorio in cui il sospettato nega di aver compiuto il delitto e afferma di essere certo che dietro ci siano i mormoni. Quando poi spiega di essersi allontanato dalla religione, Jeb, membro della LDS, replica duramente e ritiene che, in quanto apostata, debba essere il colpevole.

In effetti, sebbene Allen Lafferty non abbia per davvero commesso l’omicidio, sapeva molto bene che sarebbe successo. Come viene evidenziato nel libro, Ron (Sam Worthington) gli aveva infatti comunicato la rivelazione e la sua risposta era stata che avrebbe protetto la moglie e la figlia, ma non ha comunque mai riferito nulla a Brenda (Daisy Edgar-Jones). Ne In nome del cielo, invece, l’uomo non ha contatti coi suoi fratelli da un anno e teme solo il coinvolgimento della cosiddetta Scuola dei Profeti, una setta fanatica guidata dal profeta Onia (Dean Paul Gibson) in cui Ron, Dan (Wyatt Russell) e gli altri erano rimasti coinvolti (il che è vero). Allen era anche frequentemente violento con Brenda, questione qui relegata a caso isolato, e non si è nemmeno mai allontanato dal mormonismo, come invece la serie vuole far credere.

Queste alterazioni mettono il Lafferty in una luce più positiva – un insulto per la vittima e la sua famiglia; tra l’altro, la sola ragione dietro l’ultimo cambiamento citato sembra essere la volontà di far scaturire il conflitto con Jeb e innescare la sua crisi di fede. La storia vera, insomma, è stata modificata sin dalle fondamenta col solo scopo di sviluppare quella fittizia del detective protagonista.

Una narrazione inutilmente complicata

Un altro, importante cambiamento è quello che riguarda la morte del padre dei Lafferty. Nella realtà, è dipesa dal generale rifiuto in famiglia di assumere medicinali, ma ne In nome del cielo è presentata come la vendetta di Ron per i soprusi subiti dalla madre a cui ha dovuto assistere in tenera età (veri, ciò non toglie che il resto non sia assolutamente provato). Altri eventi sono stati anticipati, altri ancora romanzati, ma non sono particolarmente problematici; ad essere problematico è però il fatto che vengano presentati attraverso continui flashback, che vorrebbero riprendere la struttura per salti temporali del libro di Krakauer, ma vengono gestiti talmente male che il loro unico effetto è di complicare inutilmente la narrazione. Il tutto, ancora una volta, per assoggettare le vicende al punto di vista del protagonista.

Assurdamente, poi, durante le indagini le conversazioni ruotano più attorno alla storia mormone che al crimine in sé, e persino gli indagati vengono sfruttati per informare lo spettatore a riguardo. Una sequenza emblematica, che sfiora il ridicolo, si ha quando il Presidente mormone entra in caserma e minaccia Jeb perché non vuole che la reputazione della LDS venga intaccata dal delitto. Nel bel mezzo della discussione, l’uomo inizia a ricordare il massacro di Mountain Meadows del 1857. In seguito, i due detective ne riparleranno per correggere la versione sbagliata del Presidente. Non ci dilungheremo a riguardo, la storia mormone non è semplice, ma questi espedienti dimostrano quanto In nome del cielo sia un totale fallimento dal punto di vista espositivo.

Una lancia che si può spezzare a favore della serie è la fedeltà della rappresentazione della vita mormone, come è stato evidenziato nel podcast Post-Mormon at the movies. A quanto pare, la serie ha centrato in pieno il ritratto della tipica, numerosa famiglia mormone e dei modi di fare di ogni suo membro, oltre ai costumi e alle ambientazioni molto simili a quelli effettivi. Anche su questo fronte sono state tuttavia mosse alcune critiche, per esempio riguardo l’uso spropositato di “fratello” e “sorella” (per di più non accompagnati dal cognome della persona di riferimento) e di “Padre Celeste”. Piccolezze, se vogliamo, che però nel contesto generale sono l’ennesima stortura.

In nome del cielo, o della noia

In nome del cielo vuole convincervi disperatamente di essere la nuova True Detective, uno slow burn che è tutto slow e niente burn. Le vicende sono drammatizzate fino all’esasperazione e l’interpretazione di Andrew Garfield è talmente seriosa da sembrare una caricatura (le attrici, di contro, dominano la scena). Jeb Pyre ha la fronte costantemente corrugata e il volto teso e spaventato, quasi fosse stato appena assunto come detective e non si fosse mai ritrovato a condurre degli interrogatori. Soprattutto, è il personaggio meno interessante di tutti, a cui però viene dedicato uno spazio tale che il delitto passa in secondo piano: seguiamo la demenza della madre, il deterioramento del suo precedentemente perfetto matrimonio alla disumana velocità di una settimana circa e soprattutto il conflitto interiore verso il mormonismo, che non viene neanche approfondito dignitosamente e porta a un nulla di fatto. Francamente, cosa dovrebbe importare allo spettatore dei drammi continui di un personaggio inventato in un contesto true crime?

Non è fare la posa da mal di testa in ogni episodio che rende grande una serie, né tantomeno i tempi dilatati all’inverosimile – gli episodi hanno una durata torturante, compresa tra i 70 e i 90 minuti – ma la scrittura. In nome del cielo pensa di essere un prodotto intelligente ed elevato, ma è in realtà anti-climatico e noiosissimo, in cui il secondo crimine peggiore è l’uccisione del ritmo narrativo. Nemmeno la fotografia ha qualcosa da offrire, lasciando ulteriormente scoperta l’incapacità di dirigere a dovere tutti gli intrecci. C’erano mille altri modi di raccontare questa storia, molte altre prospettive più interessanti di quella del solito detective che (non) perde la fede. Fatevi un favore: andate nella vostra libreria o biblioteca di fiducia e procuratevi il libro di Krakauer.


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Classe 1999, pugliese fuorisede a Bologna per studiare al DAMS. Cose che amo: l’estetica neon di Refn, la discografia di Britney Spears e i dipinti di Munch. Cose che odio: il fatto che ci siano ancora persone nel mondo che non hanno visto Mean Girls.

2 Comments

  1. Non è stato affatto un fallimento…a me la miniserie è piaciuta moltissimo e anche la bravura di ogni attore e smettiamola di fare sempre recensioni negative stupide e inutili!!
    Consiglio la visione della serie
    Addio.

    • Gentile Melinda, su queste pagine troverà sempre un parere argomentato, che sia negativo o positivo. Nessuno vieta di recensire negativamente un film o un qualsiasi prodotto audiovisivo e tutti sono liberi di esprimere la propria opinione, purché supportata da prove e discorsi ben argomentati. Anche nella stessa redazione di NPC abbiamo, tavolta, opinioni discordanti tra loro, non è forse una cosa buona? Un saluto!

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