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Ingmar Bergman

Ingmar Bergman era un ottimista (e ve lo possiamo dimostrare)

Attenzione: Bergman credeva nell'amore (davvero)

10 minuti di lettura

Ingmar Bergman è uno dei più grandi registi della storia. Ha saputo creare una forma di cinema filosofico-esistenzialista, rispondente alle necessità intellettuali non soltanto degli uomini della sua epoca, ma anche ai palati più fini ed esigenti della nostra, facendo in tal modo scaturire una bellezza che travalica il tempo.

Bellezza che vogliamo ricordare con un viaggio cinematografico attraverso tre film particolarmente significativi della sua produzione.

Persona è un film da cui partire

Il tema principale del cinema di Ingmar Bergman è sicuramente la filosofia esistenzialista e in particolare quella di Kierkergaad. Insomma, ciò che si trovano ad affrontare i personaggi di Bergman è un senso di insensatezza esistenziale, che deriva da un divorzio da sé, quello scollamento tra l’io e se stesso che porta alla disperazione.

Persona è quel genere di film del regista che rispecchia ed esprime appieno questa corrente filosofica.

Elisabet Vogler (Liv Ullman), un’attrice di teatro molto famosa, ad un certo punto smette di parlare. Il motivo appare oscuro, non se ne capisce il perché, ma si hanno una serie di indizi. Da una parte un figlio avuto per puro conformismo, e non per amore, poi una vita ripetitiva e determinata entro dei confini quasi inopinabili, un marito forse non tanto amato. Insomma, una serie di indizi che potrebbero darci anche una soluzione al quesito. Eppure non è così. C’è qualcos’altro nell’animo dell’attrice che turbina in una tale tempesta, sfogata poi in un perenne silenzio.

Questo qualcos’altro cominciamo piano piano a vederlo svelato, e talvolta denudato quasi in modo aspro e brutale, quando l’attrice viene mandata con un’infermiera curante in una villa sul mare, appartenente alla sua psicologa.

Qui le due donne incominciano ad avere un rapporto molto stretto, quasi simbiotico, talora vagamente omosessuale come dirà Moravia, in cui pare che le loro esistenze trascolorino e sfumino una nell’altra.

Così perdono le loro identità, le loro esistenze, che si denudano, si svelano, si decompongono fino a lasciare ciò che c’è più interno e viscerale nella vita e nell’esistere, ossia il nulla. La vita e l’esistenza non hanno alcun senso, e cercarlo porta al mutismo e quindi alla disperazione sorda.

E partendo da questo concetto si può anche arrivare a capire il vero senso del titolo voluto da Bergman: Persona. Nel mondo classico la ”persona” era la maschera di teatro, e la decisione di mantenere il lemma per definire l’essere umano in molte lingue romanze vuole proprio ricalcare il vuoto esistenziale che sta alla base dell’uomo. Dunque forse la parabola esistenzialista di Bergman non vuole altro che riprendere il senso di una parola che utilizziamo quasi ogni giorno, ma del quale spesso ci dimentichiamo .

Il Settimo Sigillo, l’amore sulla morte

Un nobile cavaliere svedese, Antonius Block (interpretato da Max von Sydow, scomparso il 9 marzo 2020), tornato dalle crociate approda su una spiaggia della terra natia. Qui ad attenderlo trova la Morte, che gli comunica che è arrivata la sua ora. Ma Antonius vuole prima superare una crisi spirituale sortagli in Terra Santa, così sfida la Morte a scacchi, la quale lo lascia girare per il paese nel mentre della partita.

Nei suoi viaggi il cavaliere si imbatte in una famiglia felice di saltimbanchi, ma l’epoca in cui si ritrova è quella della peste. E la morte pertanto si ritroverà a dover portare via anche gli amici del cavaliere. Nel frattempo questi, compreso l’insensatezza di cercare Dio e ristabilire la fede perduta, si accorge di dover accettare il proprio destino. Ma prima di farlo vuole salvare l’unica cosa in cui può davvero credere, ossia l’amore, e quindi decide di salvare i due coniugi innamorati e il loro figlio, distraendo la Morte e facendogli scappare.

Insomma, qui si delinea uno scenario un po’ differente da quello del film precedente. Pare che a fronte dell’impossibilità di comprendere l’esistenza a causa della mancata oggettività di senso, il personaggio si accorge che Dio diventa nel mondo una sorta di illusione o falso rimedio al vuoto. Un palliativo insomma.

Al contempo però realizza che qualcosa in cui credere, perché oggettivo e tangibile, c’è, ed è l’amore. Così, seppure l’esistenza continua a non avere un senso, la vita continua ad incespicare in un corridoio di giorni senza perché, l’amore in qualche modo, nella sua bellezza, colma dei vuoti che altrimenti si riempirebbero solo di disperazione.

Il silenzio, di incomunicabilità e morale

Due donne e un bambino, tornando da una vacanza, si fermano in un paese straniero di cui non capiscono la lingua, rimanendo in una condizione di incomunicabilità. Sostano in un hotel. Qui una delle donne avrà un rapporto sessuale con un uomo trovato per caso e la sorella pertanto le rinfaccerà il suo atto di lussuria. Allo stesso tempo però la sorella, nella sua austerità e nella sua incapacità di amare, si accorge di essere essenzialmente sola con se stessa e di vivere immersa nel vuoto esistenziale. Lo stesso vuoto che di fatto vive anche l’altra donna, però questa con più leggerezza riesce a trovare poi uno sfogo.

Inoltre, le due figure sono contrastanti, agli antipodi, ma una è socialmente accettata, mentre l’altra no. La donna ”austera”, avendo un atteggiamento moralmente impeccabile, e dunque accettando la rettitudine borghese, si ritrova in dei confini determinati, deterministici, che le negano la libertà lasciandole però un’identità sicura, mentre l’altra donna cerca la propria libertà al di fuori di quei confini e quindi assume un atteggiamento ”immorale”.

La parabola di Ingmar Bergman dunque è chiara: di fronte all’insensatezza dell’esistenza lasciarsi convincere dalle inconsistenti certezze del vivere borghese è vano, porta solo ad una ulteriore infelicità. Allo stesso tempo anche la ribellione porta allo stesso dolore.

Un silenzio interiore ed esistenziale che pare allora essere irrisolvibile. Eppure, allo stesso tempo, il continuo insistere della donna ”retta” sulla sua freddezza e sulla sua incapacità di amare, che poi è la stessa dell’altra donna, forse, ricollegato ad altri film di Ingmar Bergman, tra cui Il Settimo Sigillo stesso, potrebbe in qualche modo darci la chiave di volta per comprendere e risolvere anche l’enigma di quest’ennesimo silenzio.

Ingmar Bergman e il pessimismo apparente

I film di Bergman sono fortemente esistenzialisti, su questo certamente non si può avere dubbio. Eppure, l’esistenzialismo di Bergman è pessimista solo in apparenza. Un pessimismo che permane nei titoli, nelle scene, negli sguardi dei personaggi, negli atteggiamenti, ma che in realtà poi è tradito, in brevi scorci, in piccole battute quasi insignificanti, negli sfondi e nelle scenografie secondarie, da una spiegazione ben più profonda dell’esistenzialismo.

L’esistenzialismo di Ingmar Bergman è ottimista perché funzionalizza il pessimismo, non tanto per trovare risposte sicure a quesiti senza risposta, quanto ad ad arrivare ad una accettazione del dolore e dell’insensatezza dell’esistenza come punto di partenza per trovarne una soluzione, o almeno un palliativo illusorio valido.

E come si è visto dalla nostra analisi talvolta quest’illusione è l’amore, ma in altri film (abbiamo parlato anche de Il posto delle fragole) ve ne sono anche altre.

Si potrebbe azzardare a dire che il vero senso della produzione di Ingmar Bergman sia quello di spiegare l’esistenzialismo nella sua chiave utilitaristica e realistica, ossia la comprensione della vanità della vita e la conseguente ricerca di una soluzione.

Una soluzione dissolta nelle tenebre e nel buio dei film del regista, tra gli sguardi straziati della disperazione o nella desolazione di luoghi remoti o incontaminati, tra le spiagge della Svezia, o in anguste stanze di hotel, ma da qualche parte, lì, pronta in un istante a riempire i silenzi più abissali.


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Classe 1999. Studente di Lettere all'Università degli studi di Milano. Amo la letteratura, il cinema e la scrittura, che mi dà la possibilità di esprimere i silenzi, i sentimenti. Insomma, quel profondo a cui la parola orale non può arrivare.

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