Il 15 giugno la rassegna Almodóvar – la forma del desiderio riporta al cinema cinque film restaurati del regista spagnolo: L’indiscreto fascino del peccato, Che ho fatto io per meritare questo?, La legge del desiderio, Donne sull’orlo di una crisi di nervi e Tacchi a Spillo. Si tratta di film del suo primo periodo, che spazia dal 1983 al 1991. L’iniziativa è tesa a mostrare l’audace modernità del regista, che sin dagli esordi si è occupato di indagare soprattutto l’universo femminile, lanciando sguardi nei suoi pertugi più reconditi.
Difatti, se è vero che Pedro Almodóvar viene subito associato alla Spagna, suo paese d’origine e formazione, è anche vero che si tratta di un regista universale, capace di uscire dai confini nazionali e farsi strada nella cinematografia mondiale con le sue storie di sacrificio, dolore, donne, amore e arte, ricamate con l’ironia e la sensibilità di chi queste storie non soltanto le racconta, ma le comprende.
L’estetica di Pedro Almodóvar
Nativo di Calzada de Calatrava, un piccolo borgo della regione di Castiglia-La Mancha, Pedro Almodóvar si trasferisce a Madrid a sedici anni. La caduta del governo franchista porta la Spagna a una vitalità esplosiva che oggi ricordiamo col nome di Movida Madrilena, alla quale Almodóvar prende parte. La propensione per l’arte underground e alternativa porta il giovane regista a girare le sue prime pellicole, tra le più esuberanti e provocatorie — alcune delle quali proposte proprio nella rassegna di cui abbiamo parlato nell’introduzione.
È proprio dentro questo movimento culturale spagnolo che Pedro Almodóvar acquisisce e modella la sua estetica cinematografica, che è istantaneamente riconoscibile da chiunque ormai abbia un minimo di familiarità con i suoi film. Il colore è, indubbiamente, la sua cifra stilistica più iconica: i set e il vestiario dei suoi personaggi esplodono sullo schermo in tonalità accese, infuocate ed elettriche.
È impensabile un film di Almodóvar senza il rosso, il colore più utilizzato dal regista: pensiamo ai vestiti di Pepa, al gazpacho e soprattutto al telefono in Donne sull’orlo di una crisi di nervi; alle varie combinazioni di vestiti del trio femminile di Tutto su mia madre; la vestaglia e il coltello insanguinato di Volver – tornare; il vestito, gli orecchini e il divano di Julieta; e via dicendo.
Il “rosso Almodóvar” significa passione, o morte, e in generale si presta a rappresentare tutte quelle situazioni paradossali e strambe, che vedono così la loro intensità traslata cromaticamente. Sul versante dell’arte, l’aspetto dei suoi film richiama la pop-art e la camp art — nei costumi, nelle scenografie e persino nelle locandine del primo periodo.
Le coordinate narrative tipiche di Pedro Almodóvar
I film di Pedro Almodóvar, pur nella loro estensione e varietà, seguono delle coordinate tematiche comuni. Innanzitutto, di insuperabile importanza è l’universo femminile che, a detta del regista, è più avvincente da indagare in quanto le donne possiedono uno spettro emotivo più ampio rispetto agli uomini. In un’intervista del 2019, Almodóvar elabora il concetto:
Le donne sono state ridotte al silenzio per secoli, perciò hanno molte più cose da dire rispetto agli uomini. […] Credo che le donne (sempre parlando in termini generali) siano più aperte al dialogo, abbiano meno paura di riconoscere i loro errori ed entrano più facilmente in sintonia con il prossimo. Sono più tolleranti e hanno meno pregiudizi.
Le donne almodovariane sono sovente madri (Tutto su mia madre, Volver, Dolor y Gloria, Madres paralelas). Accanto alle madri, il regista si è sempre distinto per l’attenzione al mondo LGBTQ+ — di cui egli, omosessuale, fa dichiaratamente parte. Agrado e Lola di Tutto su mia madre si riconoscono come donne trans, così come Ignacio de La mala educación; il film Dolor y Gloria, nonché l’ultimissimo corto appena presentato a Cannes, Strange way of life, raccontano storie d’amore tra uomini, con diversi elementi autobiografici.
Molti protagonisti almodovariani sono personalità frammentate, che hanno subito un trauma e che cercano di raccogliere da sé i propri pezzi: pensiamo all’esempio lampante de La pelle che abito, ma anche alle verità scioccanti con cui le protagoniste di Volver e Madres paralelas sono entrate in contatto.
Da ultimo, rileviamo una predilezione per la farsa grottesca e il melodramma, generi che avvolgono tutta la filmografia di Pedro Almodóvar (ad eccezione di Julieta, per suo esplicito volere) e che servono a smorzare la drammaticità degli eventi più tragici. La critica, rilevando la peculiarità del regista nel diluire queste tendenze contrastanti, ha coniato il termine “almodrama”.
Per cominciare: Donne sull’orlo di una crisi di nervi
Anno: 1988
Durata: 90’
Interpreti: Carmen Maura, Julieta Serrano, Antonio Banderas, Rossy de Palma, María Barranco, Kiti Mánver
È un monodramma teatrale di Jean Cocteau, La voce umana, a prestarsi da ispirazione per questa pellicola di fine anni Ottanta — lo stesso su cui sarà basato il cortometraggio del 2020 col medesimo titolo. La protagonista è Pepa, una doppiatrice che cerca disperatamente di contattare il suo compagno, Iván, per finalizzare la chiusura della loro relazione e dirgli una “cosa importante”. Anche Iván è un doppiatore: i due, infatti, si sono conosciuti e innamorati sul lavoro. Peccato che Iván sia sposato, e Pepa sia costretta al ruolo di amante. Quando lui comincia a darsi alla macchia, e tutti i tentativi di contattarlo sono inutili, la donna intuisce che c’è di mezzo un’altra.
Non è, però, l’ex moglie Lucía ad aver riconquistato Iván, bensì un’avvocatessa rinomata per le sue battaglie femministe, Paulina. Entrambe le donne tradite si sentono meritevoli di un ultimo confronto ma, mentre Pepa è decisa ad avere una conversazione a quattr’occhi, Lucía ha intenzioni ben più cruente. All’aeroporto, Pepa salva Iván in extremis da un proiettile della moglie, guadagnandosi la sua riconoscenza e il tanto agognato incontro chiarificatore.
Eppure, proprio ora che se lo trova di fronte, pronto ad ascoltarla, decide che non ne vale più la pena. Dopo aver visto Pepa correre, urlare, investigare — avere, insomma, una crisi di nervi — vederla all’ultimo abbandonare il suo obiettivo è, forse, l’esperienza più appagante di tutto il film. Un’affermazione che va contro ogni logica di sviluppo del personaggio, normalmente, ma che qui è valida perché Iván non merita Pepa, e tantomeno merita il suo segreto — ovvero, che è incinta di lui.
Con Donne sull’orlo di una crisi di nervi, non possiamo dimenticarci dei personaggi di contorno, che formano una compagnia chiassosa, multiforme, dalle uscite grottesche, ma che, in fin dei conti, si rivela essere il perfetto sostegno per Pepa. C’è Candela, amica della protagonista che si è invischiata a sua insaputa in un affare terroristico; Carlos, il figlio di Iván e sua moglie, del quale Pepa era all’oscuro (e interpretato da un giovanissimo Antonio Banderas); Lucía, la moglie di Iván, appena uscita dall’ospedale psichiatrico con brama di vendetta; e Marisa, l’altera e sprezzante compagna di Carlos che passa buona parte del film addormentata dopo essersi bevuta un gazpacho condito con sonniferi.
Ma è proprio con lei che Pepa, alla fine, solidarizza, dopo che anche la stessa Marisa scopre di essere stata tradita sfacciatamente — ed è un avvicinamento ancora più soddisfacente se si pensa alla loro conoscenza dagli inizi bruschi. Le due donne sorellizzano non contro gli uomini, bensì nonostante gli uomini, oltre gli uomini, per loro stesse.
Pedro Almodóvar definisce questa pellicola una commedia “sofisticata” e “sentimentale”. È un film costruito sulle basi del melodramma, ma che se ne discosta per riflettere su tematiche moderne come la sempre crescente incomunicabilità della nostra società — si pensi all’intromissione del telefono nei rapporti di coppia, nonché al discorso sul doppiaggio cinematografico che, nella scena iniziale, si svela in tutta la sua artificialità.
E, naturalmente, anche il ruolo delle donne nel mondo viene a configurarsi come la tematica predominante del film: spesso considerate alla stregua di un accessorio o mera controparte dell’uomo, Pepa e le sue compari si ribellano a questa prigionia narrativa e forgiano una storia tutta loro. Infatti, alla fine, per rifugiarsi dal terrorismo psicologico maschile si consolano nell’amicizia tra donne, in un trionfo dell’eterno femminino tipico di Almodóvar.
Per catturarne l’essenza: Tutto su mia madre
Anno: 1999
Durata: 101′
Interpreti: Cecilia Roth, Marisa Paredes, Candela Pena, Antonia San Juan, Penélope Cruz
Nel 1999 Pedro Almodóvar incassa l’Oscar e il Golden Globe al miglior film straniero con Tutto su mia madre. È la storia di Manuela, un’infermiera single che vive con il figlio Esteban, un ragazzo appassionato di scrittura e di teatro. La sera del suo diciassettesimo compleanno, Manuela lo accompagna a vedere Un tram chiamato desiderio, e al termine dello spettacolo aspetta con lui l’uscita degli attori per chiedergli un autografo.
Quando però la prima attrice Huma sale in macchina senza fermarsi, Esteban la rincorre sotto la pioggia, ma viene investito e ucciso. Manuela decide di prendere un treno per Barcellona per informare il padre della dipartita del figlio. Quello che il ragazzo non ha mai saputo, è che suo padre è una donna trans, Lola, che Manuela aveva conosciuto proprio sul set di Un tram chiamato desiderio, quando faceva l’attrice.
Tuttavia, prima di trovare Lola, la protagonista s’imbatterà in una miriade di personaggi che, nel bene e nel male, la aiuteranno a compiere il suo viaggio verso l’accettazione: Agrado, sua vecchia amica che lavora come prostituta; Rosa, una giovanissima suora che scopre di essere incinta; Huma, l’attrice teatrale prediletta da Esteban e che ora assume Manuela come sua assistente; Nina, la fidanzata di Huma, una ragazza tormentata e volubile, dipendente dalla droga.
La situazione precipita quando Rosa rivela di avere l’AIDS e racconta che il padre del bambino è Lola, che di nuovo è fuggita davanti alle sue responsabilità. La malattia se la porterà via, così Manuela si prenderà cura del bambino, anche lui battezzato col nome del padre — e di suo figlio. Soltanto al funerale, comparirà Lola, pentita, distrutta e desiderosa di conoscere il piccolo.
Tutto su mia madre è un film sulle realtà più laterali ed emarginate. Il mondo della prostituzione, rappresentato in tutta la sua pericolosità, privo di lustro e abbellimenti, è popolato da figure che non chiedono compassione, né la desiderano. Agrado è l’esempio ideale della rappresentazione almodovariana di questa realtà: una donna trans, che pur tra i mille tormenti e pericoli della sua professione, riesce ad essere il punto di sostegno di tutti i personaggi. Fiera, schietta, autoironica, è lei che pronuncia il discorso più bello di tutta la pellicola, che si conclude con la frase: «Una più è autentica quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stessa», un’ode all’ autodefinizione e autoaffermazione delle donne.
Con la rivalsa femminile come aspetto chiave del film, la presenza maschile è, conseguentemente, ridotta. Almodóvar ribalta le aspettative, relegando quasi sempre gli uomini al ruolo di controparti dallo spettro emotivo meno interessante — una posizione che di solito occupano le donne. Invece di donne questo film non è soltanto pieno, ma a loro è persino dedicato: «A tutte le attrici che hanno fatto le attrici, a tutte le donne che recitano, agli uomini che recitano e si trasformano in donne, a tutte le persone che vogliono essere madri. A mia madre».
Per innamorarsi: Volver – tornare
Anno: 2006
Durata: 120′
Interpreti: Penélope Cruz, Carmen Maura, Lola Duenas, Blanca Portillo, Yohana Cobo, Antonio de la Torre
Con Volver, Penélope Cruz regala al pubblico una delle migliori performance della sua carriera. Il film narra la storia di Raimunda, una madre che vive a Madrid con la figlia Paula, la quale si è macchiata di omicidio nel tentativo di difendersi dal padre, che voleva violentarla. Come se la situazione non fosse già complicata, Raimunda riceve una telefonata dalla sorella Sole, che la informa della morte della zia, a cui erano molto affezionate. Al funerale, Sole viene messa al corrente di alcune voci circa la madre, morta anni prima in un incendio e ora tornata, a quanto pare, come spirito errante.
Ben presto scopre che di paranormale non c’è nulla: la madre aveva finto la sua morte dopo aver scoperto il marito con l’amante. Intanto, Raimunda si crea un nuovo lavoro come cuoca quando il proprietario del ristorante, suo ex capo, le chiede di tenere le chiavi e aiutarlo a vendere il locale. Ben presto riesce anche a liberarsi del corpo del marito, in un bosco.
A casa della sorella, insospettita dalle sue stranezze, Raimunda scopre la madre: è arrivato il momento della verità. Apprendiamo che suo marito non solo l’aveva tradita con un’altra donna — e che i due erano stati uccisi da lei — ma aveva persino abusato della loro stessa figlia, Raimunda, mettendola incinta. Ne consegue che il vero padre di Paula non era Paco, e che Raimunda e Paula sono, in un certo senso, sorelle.
Volver è il perfetto prototipo della mescolanza di generi almodovariana: se da un lato segna l’apice della tragedia, affrontando il tradimento, lo stupro e l’omicidio, dall’altro l’umorismo e l’assurdità delle situazioni (come il fantasma della madre che si rivela essere una donna in carne e ossa) contribuiscono a stemperare l’opera da una pesantezza inevitabile. Il risultato è una commedia nera di impeccabile equilibrio, una storia che si fa assaporare in tutto il suo imprevedibile svolgimento, che tiene lo spettatore col fiato sospeso come nei migliori thriller.
Il personaggio di Penélope Cruz si fa carico di una verità terribile pur di proteggere la figlia — nella sua totale abnegazione, si configura come una tipica madre almodovariana, una donna forte e fragile al tempo stesso. È inoltre da notare come, invece, gli uomini in questo film non godano di una rappresentazione particolarmente lusinghiera: nel migliore dei casi, sono personaggi piatti che entrano ed escono di scena senza che nessuno si ricordi di loro; nel peggiore, sono sanguisughe e crudeli approfittatori, che non si fanno problemi a violentare le loro stesse figlie.
Per chiudere in bellezza: Dolor y gloria
Anno: 2019
Durata: 114′
Interpreti: Antonio Banderas, Asier Etxeandía, Penélope Cruz, Leonardo Sbaraglia, Nora Navas, Cecilia Roth
Giungiamo infine all’ultima pellicola che abbiamo selezionato per la nostra panoramica di Pedro Almodóvar, Dolor y Gloria. Il protagonista è Salvador, un regista che ha dovuto abbandonare la sua professione per gli infiniti problemi di salute che lo affliggono. È tuttavia un cineasta molto amato sia in patria che all’estero. Il restauro della sua prima pellicola di successo obbliga Salvador a incontrarsi con Alberto, l’attore che ha interpretato il ruolo principale e col quale non parla da anni per via di un dissidio proprio sul set.
È il momento di fare i conti col passato: se da una parte il regista e l’attore riescono a riallacciare i rapporti — anche grazie all’aiuto dell’eroina — dall’altra il peggioramento della malattia lo rinchiude sempre più in se stesso, allontanandolo dal lavoro e dalle persone.
Sempre più di frequente Salvador rimugina sul suo passato, e in particolare sulla madre, la quale, nonostante l’indigenza più nera, è riuscita a farlo studiare e a portarlo dove è ora. Intanto, Alberto convince Salvador a portare in scena un monologo drammatico che il regista aveva scritto con intenti autobiografici e catartici. Lui accetta, a condizione di non doverlo dirigere né di comparire in alcun modo come autore o ispiratore del testo, poiché troppo personale.
Durante la prima, tra gli spettatori c’è Federico, nientemeno che l’uomo di cui Salvador è stato innamorato per anni e l’oggetto del monologo. Riconoscendosi oltre ogni dubbio, va a far visita a Salvador, e i due ricordano il proprio passato. Questo incontro chiarificatore, e insieme la notizia dell’imminente cura di un problema alla gola, portano Salvador sulla strada di una nuova consapevolezza, verso l’autoaccettazione. Alla fine, sarà in grado di interiorizzare il proprio dolore, accettare la propria omosessualità – che la madre aveva tentato di soffocare – e riprendere a girare un film proprio sulla sua infanzia.
Dolor y gloria è il film autobiografico per eccellenza, per ammissione dello stesso Pedro Almodóvar. I luoghi e le esperienze del suo alter ego Salvador sono i luoghi e le esperienze della sua gioventù. E, in effetti, il film è attraversato da un’intimità riflessiva e da una pacatezza malinconica che non si erano mai viste nella filmografia almodovariana.
Di particolare rilievo appare il discorso sul cinema che, iniziato come una lettera d’amore, termina con un colpo di scena metacinematografico, con Penélope Cruz che recita nel ruolo della madre. Pertanto, Dolor y gloria sembra inserirsi in quel filone ormai sempre più ampio di film che riflettono sul cinema, tra i cui esempi più recenti ricordiamo The Fabelmans di Steven Spielberg e Babylon di Damien Chazelle.
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