Quarantasei anni di carriera alle spalle, un’ampia filmografia variegata e un titolo di Cavaliere dell’ordine dell’Impero Britannico. Un curriculum importante quello di Ridley Scott, regista inglese che ha segnato la storia del cinema regalando al pubblico opere di importanza fondamentale a tal punto da divenire oggetto di studi e influenzare per sempre la cultura di massa.
Un percorso particolare che, pur essendo caratterizzato da alti e bassi, ha sempre cercato di rinnovarsi sperimentando generi differenti e nuove tecniche cinematografiche, grazie a una visione lucida e pragmatica che ha portato allo sviluppo di narrazioni forti e grandi messe in scena. Manifestazioni concrete di quel carattere “severo ma preciso” che spesso gli viene attribuito.
In occasione dell’uscita del suo ultimo film Napoleon, abbiamo scelto tre film che possano aiutarvi a conoscere al meglio il regista inglese.
Ridley Scott: di chi stiamo parlando?
Nato nel 1937 a South Shields, al nord dell’inghilterra, Ridley Scott cresce con i suoi due fratelli Frank e Tony (con il quale condividerà il destino cinematografico) nella cittadina inglese fino a quando, dieci anni dopo, non si trasferirà in Germania per seguire il padre, titolare di una ditta inglese arruolatosi nell’esercito inglese per combattere durante la seconda guerra mondiale.
Affascinato dalla storia del padre, il giovane inizia a fantasticare di percorrere una carriera militare per seguire le orme del genitore. Ma Francis Scott non sente ragioni, ha notato nel figlio un grande talento per le arti visive, un talento che non deve e non può essere né sprecato né tantomeno sopresso dalla dura disciplina militare.Un talento che ha bisogno di essere coltivato.
Il padre spinge così Ridley a intraprendere gli studi artistici per poter migliorare le sue doti e gettare le basi per quello che sarà il suo futuro. Dopo il diploma in fotografia e l’esperienza lavorativa nei panni di scenografo e regista di spot pubblicitari, Ridley Scott dirige nel 1977 il suo film d’esordio I Duellanti, adattamento cinematograico del racconto di Joseph Conrad che si conquista il premio della critica al Festival di Cannes, segnando così l’inizio di una fortunata carriera.
Con cosa iniziare: Alien
Titolo: Alien
Anno: 1979
Durata: 117′
Interpreti: Sigourney Weaver, John Hurt, Ian Holm, Harry Dean Stanton
Per parlare di Alien, seconda opera del regista risalente al 1979, non basterebbe forse un articolo intero. La storia della sua produzione comincia con l’incontro tra lo sceneggiatore Ronald Sushett e Dan O’Bannon, noto a quel tempo per la collaborazione al film d’esordio di John Carpenter Dark Star.
I due iniziano a lavorare insieme su alcuni soggetti fantascientifici di O’Bannon ma vengono improvvisamente interrotti quando quest’ultimo è costretto a trasferirsi in francia per partecipare al nuovo film di Alejandro Jodorowsky: Dune, adattamento del noto romanzo di Frank Herbert.
Dopo una produzione travagliata, il progetto del regista cileno fallisce e Dan O’Bannon è costretto a ritornare a casa. L’esperienza, che gli causa non pochi problemi economici, gli permette però di stringere rapporti con alcuni artisti impegnati con il progetto Dune, primo su tutti il disegnatore svizzero H.R. Giger. Sarà proprio Giger a definire lo stile caratteristico dello Xenomorfo rappresentato negli storyboard di Ridley Scott in seguito alla stesura definitiva, da parte di O’Bannon e Sushett, dello script di Starbeast, opera fantascientifica che verrà ribattezzata in seguito con il nome, più semplice ed efficace, di Alien.
Concepito per essere una versione “spaziale” de Lo Squalo, Alien è un film che basa la sua forza su un approccio horror di stampo claustrofobico. Le intuizioni degli sceneggiatori nel creare un nemico invisibile all’interno di uno spazio angusto e oscuro, sono potenziate dalla visione registica dello stesso Scott che, con sapienza, allestisce una messa in scena che trasmette pienamente allo spettatore il senso di oppressione causato dal panico e dalla costante sensazione di pericolo.
La mano di Scott in Alien sfiora la perfezione: i movimenti di macchina, a partire dalle prime inquadrature, rispecchiano una tecnica notevole che si destreggia con una lentezza studiata per alimentare il nostro senso di ansia e di incertezza, facendoci entrare in ogni ambiente come se fossimo in punta di piedi. Le riprese all’interno dell’astronave aliena sul pianeta sconosciuto (che ricordano terribilmente il noto film Terrore nello spazio di Mario Bava) riescono a risultare spettacolari per il loro apparire gargantuesche e minimizzanti nei confronti della figura umana, così come gli esterni spaziali che riescono a risultare ancora credibili a distanza di decenni.
Oltre alle evidenti tinte horror, Alien è un film che riesce a trattare temi importanti come la creazione, l’intelligenza artificiale, il capitalismo e ad approcciarsi a una visione femminista (ripresa poi dallo stesso Scott in Thelma & Louise e in The Last Duel), scegliendo di mettere al centro della narrazione un personaggio femminile, atto del tutto insolito all’epoca della sua produzione.
La figura di Ripley, interpretata perfettamente da Sigourney Weaver, è quella di una donna decisa e forte, che rompe ogni cliché e che si assume la responsabilità di affrontare la paura decidendo di combattere faccia a faccia contro l’incarnazione stessa del terrore. Una scelta dal carattere quasi politico e che risultò iconica quanto vincente, donando al film una personalità innovativa.
Il design della creatura, in tutte le sue fasi, è ancora oggi estremamente funzionante così come le performance attorniati di tutto il cast, plasmate soprattutto dalla pressione psicologica che lo stesso Ridley Scott imponeva volontariamente sul set, in modo da creare un clima di tensione realistico. Il film ha generato in seguito una longeva serie di sequel e di spin off che hanno visto alternarsi alla regia personaggi del calibro di James Cameron e David Fincher e che ancora oggi raccoglie appassionati di fantascienza e non solo. Un’opera visionaria e perfetta nella suo stile e nel suo modo di essere raccontata e che rappresenta senza dubbio uno dei capolavori del regista inglese.
Con cosa non iniziare: Il Gladiatore
Titolo: Il Gladiatore
Anno: 2000
Durata: 155′
Interpreti: Russell Crowe, Joaquin Phoenix , Connie Nielsen, Richard Harris
Ebbene si. Per quanto possa risultare strano, essendo uno dei maggiori incassi nella filmografia del regista britannico, Il Gladiatore non è il miglior modo per conoscere il suo valore artistico.
Non perché non si tratti di un buon film, anzi. Il fim è sicuramente ben fatto e ben costruito su vari punti di vista tecnici e riesce, anche (e soprattutto) grazie alla famosissima colonna sonora di Hans Zimmer, a colpire l’animo dello spettatore nella sua emotività.
Sono sicuramente funzionanti in quest’ottica gli espedienti narrativi che spingono la pellicola su un fronte più drammatico e spettacolarizzato, cercando di incentrare tutta l’attenzione sulla figura del protagonista Massimo Meridio (Russel Crowe) elevata a quella di eroe assoluto contrapposto al perfido Commodo, interpretato da un giovane Joaquin Phoenix.
Il film però ha il difetto di essere eccessivamente pomposo e la personalità di Scott sembra rimanere sommersa e riadattarsi a uno stile più anonimo e (fin troppo) pulito. La produzione gigante schiaccia il talento artistico e il risultato che viene fuori è quello di un film sicuramente godibile e divertente, ma che è lontano dalla poetica visiva che ha caratterizzato parte della filmografia del regista.
Pur condividendo apparentemente lo stesso stile, siamo distanti dalla semplicità de I Duellanti o dall’approccio psicologico che verrà affrontato in seguito con film come The Last Duel. Ne Il Gladiatore l’epica è ingombrante, pesante e forse fin troppo spinta. Non concede spazio alla riflessione né tantomeno alla contemplazione. Un film che è rimasto nell’immaginario di molti, ma non certo per la sua autorialità.
Per innamorarsi: Blade Runner
Titolo: Blade Runner
Anno: 1982
Durata: 124′
Interpreti: Harrison Ford, Sean Young, Rutger Hauer, Daryl Hannah
Si può affermare, senza alcuna paura, che esista un “prima” e un “dopo” Blade Runner. Con questo film, Scott firma infatti un’opera che sconvolgerà, nei decenni a venire, tutto l’immaginario della fantascienza andando a rimodellare i canoni estetici e ridefinendo nuovi stili che saranno presi come esempio da moltissimi registi in seguito.
Bastato sul meraviglioso romanzo Il Cacciatore di Androidi del genio Philp K. Dick, Blade Runner è un film che tratta il tema dell’esistenza e della vita in una maniera pressoché unica. Seppur distanziandosi per molti aspetti dal racconto originale, Scott prende da quest’ultimo la tematica della vita artificiale che, conscia della sua condizione, inizia a imporsi su quella naturale pretendendo il diritto di poter continuare il proprio sviluppo.
In Blade Runner non esistono reali antagonisti. I replicanti in fuga, di fatto, non sono esseri dominati dalla malvagità ma dalla disperazione e dal pulsante desiderio di rimanere vivi. La perfezione dei Nexus 6 nel replicare l’animo umano è tale da trascendere i limiti della robotica (imposti anche dalle ben note regole di Asimov) e far così assumere agli androidi caratteristiche e emozioni che li rendono, forse, un’evoluzione stessa dei loro creatori. Non si può in questo senso non pensare al monologo finale, forse tra i più celebri della storia del cinema, in cui Roy, interpretato a dir poco magistralmente da Rutger Hauer, afferma di “aver visto cose che noi umani non potremmo immaginarci”.
L’androide che supera così la condizione umana ma che ne conserva la poetica emotiva, come viene espresso dalla profonda malinconia racchiusa nell’ultima frase del monologo (scritta dallo stesso Hauer, la sera prima di recitarla). Ma se la complessa e articolata filosofia del film ne definisce il significativo contenuto, è forse ancor più importante la cornice in cui questo è racchiuso.
L’ambientazione definita da Scott è infatti unica: la città decadente e cupa, le luci al neon e la pioggia si mescolano con insolita naturalezza a elementi sci-fi come macchine volanti e strumenti tecnologici, creando così un mix vincente tra lo stile noir e fantascientifico. Impensabile non citare anche l’incredibile scelta estetica per quanto riguarda lo stile dei personaggi che assumano tratti cyberpunk e futuristici.
Tutto nel film è tecnicamente prefetto. Tutto. La fotografia, curata da Jordan Cronenweth, racchiude un lavoro studiato nei minimi dettagli: se per gli esterni si basa su colori scuri e contrastati, come il blu, il viola e il rosso, negli interni decide di sfruttare tagli di luce che ricordano quasi uno stampo di stile espressionistico basato su giochi di ombre che riesce a conferire al film un’atmosfera di natura onirica. Altro elemento fondamentale è la splendida colonna sonora di Vangelis, che firma qui il suo lavoro migliore, un sound personalissimo costruito su sintetizzatori analogici e linee di sassofono che donano alle varie scene un sentimento malinconico estremamente funzionale per la narrazione del film.
Di Blade Runner si potrebbe parlare per ore, discuterne per giorni dei suoi sottotesti. Ma ogni parola in più sarebbe forse riduttiva per parlare di un capolavoro del cinema che vive di fotogrammi e di atmosfere, di filosofia e di umanità.
E di cose che noi umani non potremmo immaginare.
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