Julia Garner, vincitrice a solo 28 anni di due Emmy, abbandona i logori abiti della scaltra Ruth Langmore di Ozark per dare corpo agli abiti scintillanti e alla moda di Anna Delvey in Inventing Anna, la Serie TV che ripercorre le vere gesta della finta ereditiera che ha truffato per milioni di dollari le più importanti cariche finanziare americane.
Il Sogno Americano non è per tutti
Inventing Anna è la mini serie prodotta da Netflix e Shonda Rhimes ispirata al celebre articolo How Anna Delvey Tricked New York’s Party People scritto da Jessica Pressler per il New York Magazine. Ad attrarre milioni di lettori è il quesito a cui in molti hanno cercato di dare una risposta: come può una ragazzina di 25 anni truffare importanti banche, uomini d’affari e figure di spicco dell’alta società newyorkese? Vediamolo insieme.
Capita più o meno a tutti, almeno una volta nella vita, di provare quel disperato bisogno di riscatto, di rendere concreta quella necessità di dimostrare di essere giusti, di conquistare e meritare di stare nel cerchio sociale a cui ambiamo. Così Inventing Anna, di memoria Fitzgeraldiana, è la dimostrazione di come molti di noi siano disposti a ricorrere a qualsiasi mezzo pur di accedere alla scalata del successo personale. Anna Delvey, all’anagrafe Anna Sorokin, nasce in una piccola cittadina nel sud est di Mosca e da adolescente si trasferisce insieme alla sua famiglia in Germania. Ma i suoi sogni sono troppo grandi e capisce che forse solo New York, patria dell’American Dream, può darle la possibilità di realizzarli.
Il suo desiderio è quello di dare vita ad un esclusivo club privato che unisca moda e arte contemporanea per la élite della grande mela e, per realizzare un progetto così mastodontico, crea il personaggio e la storia di cui tutti hanno bisogno per poter riporre la propria fiducia. Fingendosi un’ereditiera tedesca in attesa di poter mettere mano al suo fondo fiduciario riesce a frodare con straordinaria scaltrezza banche, hotel, ristoranti e molti dei suoi amici del jet-set.
Tutti parlano di Anna Delvey
Vivian Kent (Anna Chlumsky) nel ruolo di Jessica Pressler, la vera giornalista che seguì il caso, è la prima ad interessarsi ad Anna Delvey, il suo obiettivo è quello assemblare tutti i tasselli narrativi provenienti dalle persone che hanno orbitato nella sfera della protagonista. La sua, sembra più che altro l’esigenza di dare ad Anna quella stessa possibilità di spiegare che invece a lei è stata negata. Proprio lei che è stata vittima del racconto di altri senza poter avere un ruolo incisivo nella sua storia mal raccontata.
In questa ricostruzione del passato e dei movimenti di Anna sono gli altri a tenere le redini della sua storia, ciascuno con il proprio punto di vista. Se in Chinatown del 1974 Roman Polanski ci aveva reso evidenti gli espedienti linguistici per raccontare i punti di vista per mezzo di una articolazione narrativa che costruisce verità illusorie dall’apparente inconfutabilità, Inventing Anna (distante anni e anni luce dal capolavoro di Polansky) lavora sull’esatto opposto. Lo spettatore sa che si tratta di una storia totalmente fasulla e si interroga sulla capacità umana di credere al racconto degli altri.
Il tentativo di Vivian di cercare una verità sull’origine del talento fraudolento di Anna si rivela inappagante, ma del tutto in linea con le pulsioni umane contemporanee. Inventing Anna, non nasconde episodi di incesto, prostituzione e criminalità organizzata, la storia di Anna è molto più semplice, una come tante. Nata in una famiglia di immigrati conduce una vita umile, fatta di duro lavoro ma anche di tante speculazioni rese plausibili semplicemente dall’origine russa della famiglia Sorokin. Un’origine forse poco degna per una maestra della truffa con ambizioni tanto grandi, ma di fatto è solo la storia di una millenial socialite il cui desiderio di inserimento sociale è plasmato dai filtri di Instagram e da quella ricerca spasmodica del lusso tanto ostentato, che per molti ha alimentato l’esigenza prioritaria di entrare a far parte di quell’élite degli invidiati.
In Inventing Anna ci troviamo in un regime di evidente focalizzazione plurima e abbiamo un forte disorientamento percettivo nonostante la natura illusoria di quella ricchezza sia garantita a caratteri cubitali. Anna Delvey è ermetica e dà solo continuità ai racconti degli altri. Anche i flashback allentano la pretesa di oggettività dei fatti, evidente nelle sequenze di Vivian in Germania, quando immagina la possibile storia della ragazzina. L’esigenza dello spettatore, di avere una visione chiara ed esaustiva dei fatti, non viene mai ripagata. Abbiamo sentito la storia di tutti, amici, amiche, fidanzati, banchieri e genitori, tutti hanno raccontato, l’unica a non farlo è stata Anna Delvey/Sorokin. Quale è la sua verità?
L’idea che Anna ha di sé è probabilmente racchiusa in una conversazione con Talia Mallay (Marika Dominczyk) davanti ad un’opera della raccolta di scatti Untitled Film Steels di Cindy Sherman.
“Era solo una fotografa qualunque nascosta dietro l’obiettivo, osservava e sceglieva i suoi soggetti in base a quello che piaceva agli altri. Poi un giorno, lei decise di entrare in uno dei suoi scatti attribuendo a sé stessa un valore, invece di restare bloccata in un ruolo stabilito da un mondo artistico dominato dagli uomini. Divenne lei stessa il centro della sua opera. E facendolo ha cambiato il mondo”.
Una donna che racconta una donna
Inventing Anna è la storia di due donne: Anna Delvey che vuole dare vita al suo bramoso desiderio di essere ritenuta “speciale” e della giornalista Vivian Kent ossessionata dalle vicende della truffatrice tedesca poiché è convinta che riuscirà a ricostruirne una storia che la condurrà direttamente verso il proprio riscatto lavorativo. La giornalista infatti, in seguito ad un errore, è stata ormai etichettata come l’esempio vivente del cattivo giornalismo e per questo è finita nell’angolo “scriberia” dove i giornalisti più anziani aspettano di andare in pensione.
Ed è proprio su questo che Inventing Anna indugia, su quella necessità incessante di dimostrare agli uomini di essere all’altezza del proprio ruolo, proprio perché a prendere le decisioni sono ancora loro. Nella maggior parte degli episodi, Vivian è sempre vincolata alle decisioni maschili dei suoi caporedattori, deve arrabbiarsi e gridare per lasciarsi accordare quella fiducia che possa decretare il successo del suo articolo.
Le donne non possono permettersi di sbagliare, e come ripete la giornalista a più riprese “se fosse stato un uomo non avrebbe perso la credibilità, come è successo a me”. Nel mondo degli uomini di potere bisogna sempre dimostrare di essere all’altezza di stare nel cerchio, se sbagli sei fuori e finisci per essere emarginata. Però sono anche gli uomini a sbagliare, come succede ad Alan Reed (Anthony Edwards), il quale finisce anche lui per perdersi nel vortice di bugie di Anna, ma la differenza è che a lui non spetta l’angolo della punizione come per Vivian, bensì una promozione, nonostante abbia permesso alla sua società di essere truffata.
La denuncia mancata di Inventing Anna
La critica all’egemonia maschile dei vertici in Inventing Anna risulta però superficiale, lanciata e mai approfondita, come se l’approfondimento della gerarchizzazione lavorativa di dominio maschile non sia ancora abbastanza interessante da poter essere analizzata sotto una lente più critica. In questi termini la denuncia all’imparità lavorativa si dimostra superficiale e insignificante, un semplice inserimento di sfondo per restare al passo con la serialità contemporanea finalmente in ottica femminista.
Singolare è invece il modo con cui viene trattato il tema della maternità. Vivian è incinta e vive la gravidanza come un peso ingombrante, una situazione di fagocitante distruzione dell’Io lavorativo femminile, un limite al successo del suo progetto. A dimostrarlo la sequenza nella stanza della nascitura, che invece di essere piena di rosea innocenza è colma delle foto di Anna Delvey. Il marito prova a dirottarla verso i valori materni ma non riesce a reprimere l’istinto di affermazione lavorativa di Vivian. In questo senso vi è un rovesciamento stereotipico della donna-madre con istinto innato alla maternità, difendendo invece quello spazio di donna lavoratrice “questo è il mio muro”.
La giornalista non ha molto tempo a disposizione e, per assicurarsi il lavoro anche dopo il rientro dal periodo di maternità, ha bisogno di riguadagnare quella credibilità persa a causa di un uomo. Vivian incarna, in modo del tutto silente, le grida sorde di tutte le madri che rispondono alla richiesta della società di generare figli ma che di fatto non offre loro la possibilità di essere madre e lavoratrice allo stesso tempo senza che una delle due identità venga messa in discussione.
Vivian partorisce due volte, prima il suo articolo che le fornirà una nuova credibilità lavorativa e subito dopo sua figlia, passeggera ignara delle fatiche di una madre in stile Erin Brockovich che desidera essere appagata prima di tutto come giornalista e subito dopo come genitore. Il personaggio di Vivian è stato però svilito da un’interpretazione grottesca con il ricorso a mimiche facciali fumettistiche che si ripetono praticamente per ogni tipo di situazione, dal pianto alla risata fino al parto. L’importanza all’aspetto ironico era già offerto proprio dal tipo di personaggio senza che ci fosse il bisogno di caricare ulteriormente.
L’eccesso che imbarazza
La portata drammatica di Inventing Anna viene letteralmente annientata dai toni glamourizzati alla Gossip Girl spingendo di fatto un racconto su cui riponevamo tante aspettative nel recinto infantilistico del teen movie all’americana. Case super lussuose, abiti in vetrine luccicanti, yacht, jet e alberghi di lusso si susseguono frenetici per mezzo di transizioni elementari alla movie maker. Sovrimpressioni di bacheche Instagram a supporto della presentazione dei personaggi “dell’universo Anna” sono compulsive e reiterate fino al completo sfinimento, fino all’inguardabile.
E se le immagini non sono abbastanza per mostrarci quanto tutto sia luminoso, chic e super alla moda la scelta dei brani musicali hip-hop dai testi monotemali caricaturizzano una rappresentazione che già di per sé è una caricatura dell’eccesso, inducendoci allo snervamento, fino all’esasperazione.
A sfigurare completamente in questa serie del “quando è troppo è troppo” è proprio l’astro nascente Julia Garner, costretta in un ruolo che non le rende assolutamente giustizia, forzata in un’interpretazione pietosamente anonima. Un peccato dunque, che non si siano riuscite a sfruttare a pieno le caratteristiche di un’attrice simile, che come sappiamo è magnifica nei ruoli di donne forgiate dai complessi drammi interiori.
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