È difficile, ma dopo la visione di Io capitano gli animi sono offuscati e smossi dalla propria zona di comfort. Dunque, perdonate se non saremo lucidi nel recensire l’ultima pellicola del maestro Matteo Garrone, presentata in Concorso a Venezia80 e che, tra l’altro, il pubblico italiano può già trovare al cinema dal 7 settembre.
Un film come Io capitano occupa, infatti, il cuore e la mente dello spettatore fino ad assorbirlo in una spirale di pensieri ed emozioni che scorrono in un flusso di coscienza infinito. Annichiliti, non si può che rimanere inermi e in silenzio a osservare la marcia della morte, abilmente orchestrata da uno dei registi più bravi al mondo.
La storia e il cinema politico di Io capitano
Due ragazzi senegalesi di sedici anni, Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall), affascinati dalle fantastiche storie provenienti dall’Europa decidono di partire anche loro in un viaggio della speranza che li porterà nella terra promessa. Io capitano racconta il tragico viaggio attraverso la savana del centro Africa, per poi passare dal deserto del Sahara, fino ad arrivare alle coste della Libia, dove i due protagonisti potranno partire alla volta dell’Italia.
Che Garrone potesse fare del cinema politico una propria espressione artistica, lo dimostra Gomorra. Tuttavia, negli anni il regista romano sembrava essersi allontanato dal campo, forse per via della deriva politicante che Gomorra scatenò negli anni avvenire, da sinistra a destra, e tra impropri battibecchi istituzionali. Già Dogman tornava a una dimostrazione d’intenti che voleva dipingere la realtà sociale italiana di esclusi e reclusi; quasi a dire, da parte di Garrone, che era impossibile per lui fare un film che fosse slegato dal contesto contemporaneo del Belpaese.
Quando scappare non è sempre una “necessità”
Tuttavia, con Io capitano, Garrone trova una simbiosi perfetta tra politica, attualità, tragedia, e mitologia, religione, fantasia. Del resto, Seydou è prima di tutto un sognatore, ambisce a scrivere musica e diventare famoso; ciò rende il suo personaggio un perfetto eroe classico: “un’Odissea contemporanea” – per usare la definizione impiegata nella presentazione del film al Lido – dove i protagonisti diventano prigionieri in cerca di un’evasione.
La necessità di scappare dal proprio paese è interpretata pertanto come ricerca di riscatto sociale, prima che come bisogno di sopravvivenza. Ancora una volta, Garrone sbugiarda chi pensa che la guerra e la fame siano gli unici fattori inerenti ai flussi migratori. Seydou e Moussa sanno che non potranno mai accontentarsi finché si trovano in Senegal: è la voglia di costruire un futuro per sé stessi che li spinge a partire.
Io capitano lancia così un messaggio chiaro e di avanguardia politica, e nel farlo si distanzia dalle logiche occidentali che tentano di analizzare la situazione con estremo egoismo. Quello che infatti l’opinione pubblica nostrana ha sempre cercato di fare è raccontare la tragedia della migrazione da un punto di vista semplicistico, come se la voglia di emigrare non fosse che un orizzonte negativo.
D’altronde basta vedere la reazione collettiva (di tutti!) al fenomeno: per forza una punizione, necessariamente un “dramma”. Basta spostare l’orizzonte, et voilà, tutto è più chiaro: i motivi, gli scopi, gli antipodi. Appare perciò come una necessità – in questo caso sì – quella di scrivere la sceneggiatura non solo dai suoi autori (Matteo Garrone, Massimo Ceccherini, Massimo Gaudioso e Andrea Tagliaferri) bensì dagli stessi interessati, grazie a un lavoro di pre-produzione intensiva che vede la collaborazione alla scrittura delle testimonianze dirette di cinque migranti (Fofana Amara, Mamadou Kouassi Pli Adama, Arnaud Zohin, Brhane Tareka, Siaka Doumbia).
Io capitano invita ad abbandonare il proprio scetticismo
Insomma, Io capitano va oltre la politica apertamente ideologica, lascia raccontare, come solo un vero cineasta sa fare, la verità dell’ampio e intricato spettro della tragedia africana.
Nel farlo, però, non si limita a raccontare una semplice storia di sconfino, mostra un lato mai visto del dramma umano, completa la parabola dell’eroe omerico attraverso influssi fantasy di contorno. Come Ulisse, il viaggio è inteso come percorso di cambiamento fisico ma anche metafisico e spirituale. Angeli, sciamani, allucinazioni connettive che arricchiscono una storia oltre il semplicistico appello all’umanità.
Io capitano è piuttosto un invito aperto al rispetto, cosciente o incosciente, della tragedia consumata. È un po’ come la lunga sequenza iniziale di Salvate il soldato Ryan, o come Il pianista di Polanski. Film genesi che imputano allo spettatore la responsabilità di abbandonare il proprio scetticismo. Guardando Io capitano d’altra parte non si può rimanere impassibili, l’effetto è quello di un film sull’olocausto; la memoria viene indorata come una medicina, somministrata in dosi massicce per mostrare la verità dietro la cortina del bigottismo.
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