Io ho paura (1977) è un film di sussulti, giocato sull’innesto tra suspense e coscienza. Lontano dal cinema “a tesi”, volto semmai a un’interpretazione del reale, Damiano Damiani rintraccia nel mistery il nerbo della sua trama, mostrando – nei fatti – un chiaro intento sovvertitore. L’opera, improntata ai modelli del poliziesco, conserva una cifra scomoda nel lavoro sul personaggio, esplicitando il collegamento tra denuncia e figurazione.
Negli anni dello sprezzo à la Merli, il brigadiere Graziano (Gian Maria Volonté) è un uomo onesto e dubbioso, intimamente fiaccato dal peso del suo ruolo. Durante l’ennesimo agguato – nella folgorante overture – si nasconde per terrore, consegnando agli atti una debolezza indicibile: “Diciamolo pure, anzi mettilo a verbale. Il brigadiere Graziano ha avuto paura. Io ho paura“.
Io ho paura, un puzzle di verità
Si tratta, agli occhi dello spettatore, di una resa incondizionata, preannunciata dallo scarto fra dramma pubblico e privato; curvo sul banco di una boutique, con la cartolina per la figlia tra le mani, Graziano entra in azione più per inerzia che per dovere, schivando i colpi dei terroristi come trascina la vita.
C’è, in questo twist repentino, tutta la forza del cinema di Damiani. Teso al disvelamento di verità “a mosaico” – nel duplice senso di parzialità e integrazione – il regista fa emergere i fatti mediante lo slittamento dei piani, sì che gli stessi attori finiscono per esporsi a una disorganicità programmatica.
Io ho paura, l’umanità di Volonté
Graziano, in questo senso, è un personaggio emblematico, impersonato da un Volonté con lo sguardo affranto – ruvido, virile, libero dalla forma. I suoi chiaroscuri – imperdonabile onta – affiorano nel percorso a ogni cambio di scena, puntellano la vicenda di umanità dolente, orientano il corpo a corpo verso una lotta impari.
Non vi è, nell’orizzonte di Graziano, alcun moto di orgoglio prima del giudice Cancedda (Erland Josephson). Assegnatogli come scorta per ragioni di quiete (“si occupa di quei bei vecchi delitti di una volta”), istituisce con l’uomo un cordone emotivo, vede nella sua integrità una proiezione del vecchio sé. Mentre indagano su un caso in apparenza banale, i due cadono nelle spire di un fattaccio indicibile.
Io ho paura, il mistero e la teoria della finzione
È qui che il film cambia ritmo, si riappropria dei tempi stretti, decolla verso picchi di inesauribile tensione. Assumendo il mistero come modalità narrativa, Damiani conferisce all’opera un plot avvincente e si muove, al contempo, sul terreno dello “scacco” – cui inevitabilmente conduce la ricerca del vero. È una zona paludosa, rischiosamente in bilico fra cospirazione e impegno. Damiani la frequenta con acuzie, sottoponendo il genere ora alle “costrizioni” del film-inchiesta ora all’intreccio di fiction e non-fiction.
La morte di Cancedda, sorpreso dai sicari mentre stringe il rosario, è dunque la messa a punto di una “teoria della finzione”, l’applicazione coerente di quanto affermato da Didi-Huberman: “L’immagine tocca il reale”, costeggia, a volte, la verità della coscienza. In questa prospettiva il film di Damiani ha il merito di svelare la consistenza dell’occulto. Non è il complotto che “ci fa delirare” (Pasolini), bensì l’espressione di un rimosso-taciuto, il tentativo di “lucidare” un’opacità consistente.
Io ho paura, rivelare l’invisibile
L’operazione acquista ancor più valore se si considera il film come prodotto a caldo, esito di uno sguardo sulla violenza in itinere. Se le zone d’ombra infettano le narrazioni attuali – abradendo persino il margine dell’incertezza – l’indagine di Damiani si configura come espressione di una non volontà: di dire, di spiegare, di vedere il reale. Significativo, in tal senso, lo scambio di battute fra Graziano e Cancedda, quando l’ennesimo cadavere svela l’inutilità della denuncia e del bene: “il generale sapeva tutto, perfettamente. Anzi, mantiene i rapporti con Caligari [il terrorista nero] tramite Ruiz [colonnello del Sid]”.
Anche la pantomima del nuovo giudice (Mario Adorf), apparentemente legato a istinti basici (“io ho solo due passioni: la politica e quella cosa che comincia per f“), è il perfetto camuffamento della realtà in quanto tale. Lo dice già Sciascia, che in Atti relativi alla morte di Raymond Russell (1977) offre una suggestiva chiave d’approccio: “Ma forse questi punti oscuri che vengono fuori dalle carte, dai ricordi, apparivano, nell’immediatezza dei fatti, del tutto probabili e spiegabili“.
Io ho paura, verità o sacrificio?
Spetta all’arte, alla “verità della finzione”, mettere in fila di dati traslucidi, cambiarli di segno e palesare l’inganno. È una sfida che hanno raccolto in molti, facendo della macchinazione un dispositivo fagocitante. Non così Damiani, che distingue teoria del complotto dallo svelamento di fatti, grandi “burattinai” da poteri tentacolari. Il suo Graziano sembra il figlio di Rogas del Contesto sciasciano, certo più scisso, a tratti indolente, comunque donchisciottesco nell’atto di redenzione. Muore sull’asfalto dopo aver difeso la giustizia. Il cerchio si chiude, e il mondo è al collasso.
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