Tessere di un puzzle, frammenti di uno specchio andato in pezzi: Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli è il frutto di un raffinato lavoro di composizione, opera tipicamente pura in quanto capace di parlare da sé, come un testo che si fa leggere disvelando ogni volta un significato diverso, una porta su un senso ultimo di ri-definibile esplicitazione.
C’è un’unità di fondo in quest’operazione di scrittura per il cinema, sebbene ogni singolo fotogramma e cambio di prospettiva si pongano come implacabili tentativi di diffrazione, quasi a rimarcare l’utilità di un’operazione complessa eppure – al tempo della storia – strettamente necessaria.
Una spiazzante quotidianità
La vicenda di Adriana (Stefania Sandrelli), giovane pistoiese approdata a Roma nella speranza di sfondare nel cinema è, in termini di pura trama, un racconto di spiazzante quotidianità. Non suscitano scalpore le sue ingloriose peripezie e gli ingenui incontri d’amore mancato appaiono piuttosto un residuo melodrammatico, stilemi di “narrativa minore”[1] adattati a un discorso di nausea dell’esistenza.
Eppure l’indicibile sinossi con la sua impossibilità di traduzione all’infuori del confine filmico è, nell’opera di Pietrangeli, caratteristica funzionale alla messa in scena di una storia che si consuma in un tempo incerto, storicamente e narrativamente sfuggente.
Il tempo sospeso
Gli anni Sessanta in cui la vicenda si colloca vengono rivelati, in uno sfacciato gioco di deduzione, da una serie di dettagli che costellano l’opera sin dal suo inizio, quando Adriana dopo aver preso il sole in spiaggia si dirige ridente verso un negozio da parrucchiera, non prima di aver chiesto a un uomo di allacciarle il costume e aver flirtato, con maliziosa ingenuità, con un altro passante che l’annaffia per strada.
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Il cambio sequenza mostra l’improvvisa rottura di una boccetta di smalto quando un flashback, rapido e spiazzante, restituisce Adriana alle prese con un’altra caduta, quella di una bottiglia di vetro che le scivola dalle mani mentre è impegnata a respingere l’assalto di un rozzo spasimante.
Fragilità e visione parziale
Non c’è, né qui né altrove, alcun riferimento concreto all’effettiva durata della storia e il contesto, pur se volutamente riconoscibile, è racchiuso nello spazio di una narrazione sospesa, che procede per segmenti brevi legati tra loro eppure fortemente autonomi, tanto da indurre lo spettatore a ricercare – se mai lo volesse – il valore “d’inizio” di ciascun tratto, tessera imprescindibile ma non cronologicamente ordinata del mosaico esistenziale della protagonista.
Il duplice richiamo al vetro infranto, tra l’altro, racchiude in sé un senso ben più profondo della semplice corrispondenza costruttiva; come un recipiente che si rompe, Adriana è un oggetto fragile destinato a spezzarsi, mentre le schegge delle sua vita narrata e ri-vissuta si pongono come strumenti di una visione parziale, ognuno portatore di uno sguardo diverso e drammaticamente esterno.
I volti di Adriana
In tal senso, pertanto, ha valore parlare – come in apertura di articolo – di frammenti di uno specchio andati in pezzi, tanto più che Pietrangeli confeziona una delle ultime, feroci sequenze, come una panoramica sul volto di Adriana, seduta davanti a uno specchio che le restituisce l’immagine moltiplicata per tre, secondo diversi primi piani che rappresentano le sfaccettature della sua personalità, appiattita dagli altri e apparentemente “senza interiorità”[2].
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La prospettiva che ogni ritaglio del film restituisce è quella, sempre manchevole e rivedibile, di una protagonista approcciata mediante gli occhi di un personaggio altro, che quasi nella totalità dei casi è un individuo di sesso maschile: fidanzati squattrinati e uomini di successo, un agente spietato e – nello spezzone più tragico – uno scrittore insensibilmente schietto.
Sguardo maschile e contraddizioni del “boom”
Dai loro sguardi – sapientemente introiettati dalle colleghe-maschere di Adriana e dall’amica a cui racconta dell’aborto – emerge una descrizione della ragazza come soggetto “appendicolare”, preda facile e agevolmente domabile perché calata con precisione nel desiderio del suo tempo, quello di un’epoca di repentine trasformazioni in cui il nuovo ciclo di produzione e i bisogni indotti dal “boom” non fanno in tempo a innestarsi con grazia sul tronco tradizionale della società contadina.
Il mondo in cui Adriana s’immerge è popolato da cinici cacciatori di denaro, crassi viveur pronti a tutto pur di guadagnarsi un posto in società: lo testimonia Paolo (Nino Manfredi) col suo suggerimento di posare nuda per attirare i registi, e lo rimarca soprattutto Bagini (Ugo Tognazzi), laido “caratterista” costretto a divertire una disumana platea di attori e stelline.
La critica alla società dei consumi
Quando Adriana è con questi personaggi il suo carattere, per ammissione dello stesso Pietrangeli, è ingenuamente e spontaneamente “riposante“ (“Le va tutto bene. Dove la mettono resta. Dove la portano va”[3]) ma non c’è dubbio che, nel raccogliere insieme i frammenti dello specchio, il regista sappia bene come illuminarli.
L’impietosa critica da lui avanzata, sotto la superficie, alla società del “miracolo”, dello scambio e del profitto restituisce infatti, in controluce, una sincera tenerezza per la sua giovane e isolata protagonista.
Estraneità di Adriana
Come la costruzione, che procede per tappe interagenti e intimamente connesse, così i contenuti della pellicola si affiancano e moltiplicano in un testo infinito, i cui livelli di lettura non cessano di aprire porte a interpretazioni che conducono tutte a un punto centrale: l’estraneità di Adriana a un sistema di cui si crede – e appare – parte.
Di contro alla vacuità che la perdita dei valori tradizionali porta con sé (in alcune sequenze la giovane è mostrata nella sua casa paterna in campagna, con un fratello malato e una sorella che si sa suora), la protagonista di Io la conoscevo bene mostra un candore d’animo quasi naïf, incredibilmente fuori posto in una società che pure la sfrutta per la sua attitudine alle tenerezze.
Un soggetto imprevisto
Innamorata senza interessi, disposta a concedersi nell’incapacità di sfruttare la propria avvenenza, la ragazza – personaggio tragico – è, in tale ottica, persino un soggetto autonomo o meglio imprevisto, secondo la definizione di Carla Lonzi ripresa con pertinenza da Lucia Cardone[4].
Le relazioni affettive che Adriana coltiva ne fanno un’inconsapevole antesignana della rivoluzione sessuale iniziata col Sessantotto – beffardamente anno di morte di Pietrangeli che avrà nel figlio Paolo il suo principale cantore.
Io la conoscevo bene: tra femminismo e utopia
Soltanto anni dopo, tuttavia, le donne prenderanno coscienza dell’enorme peso scaricato dalla sessualità libera sulle loro coscienze e spalle. Tenute a soddisfare i loro uomini nonostante il mutamento dei ruoli, le femministe lavoreranno moltissimo su una visione del sesso svincolata dalla funzione patriarcale di riproduzione e servizio.
Adriana Astarelli, in questo senso, precorre involontariamente i tempi di una riflessione a venire, e non è un caso che il suo ritratto più dolcemente veritiero emerga nella gratuità degli incontri con il pugile sconfitto e il garagista del suo stabile.
Indimenticabile figura della filmografia del Novecento, questa giovane fuori dalla norma conclude il suo viaggio gettandosi dalla finestra, in un ultimo estremo atto di desuetudine. Che sia un gesto di disperazione o ribellione non è dato saperlo, e in fondo ai fini del racconto non costituisce necessità. Il finale è soltanto una scheggia di un corpo sfrangiato, l’ennesimo frammento di specchio da raccogliere in pezzi.
Note:
[1] P. Bianchi, Io la conoscevo bene, in “Il Giorno”, 2 dicembre 1965.
[2] R. De Gaetano, Il romanzesco di Io la conoscevo bene, in “Fata Morgana Web”, 28 gennaio 2019.
[3] A. Pietrangeli, Il secondo soggetto, in L. Miccichè (a cura di), Io la conoscevo bene. Infelicità senza dramma, Torino, Lindau, 1999, p. 87.
[4] L. Cardone, Donne impreviste. Segni del desiderio femminile nel cinema italiano degli anni Sessanta, in “Cinergie”, 5, 2014, p. 23.
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