Lo diciamo subito: Io, noi e Gaber, il nuovo docufilm di Riccardo Milani uscito per pochi giorni nelle sale italiane, è un grande omaggio non solo a Giorgio Gaber e alla sua inventiva, al suo estro, al suo essere ironico, sarcastico, cinico, malinconico, vero, libero, ma è anche uno splendido ritratto di una collettività che parla del suo beniamino, il Signor G per l’appunto, appellandosi al sentimento della nostalgia, facendo scaturire una forte ammirazione e devozione. Il docufilm di Milani altro non è che un indagine fatta a coloro che hanno vissuto direttamente e indirettamente il Signor G, e di come egli li abbia ispirati, scossi, contrariati e ispirati.
L’anticonformista né di destra, né di sinistra.
Il Signor G è stato per gli italiani, qual dir si voglia, un personaggio controverso, che ha segnato indubbiamente la storia non solo della musica italiana, ma anche del suo costrutto sociale e culturale. Sarebbe per certi versi riduttivo soffermarsi sui singoli titoli dei suoi più grandi successi. Una cosa è certa: Giorgio Gaber ha il merito di aver portato, dopo un’impensabile (per alcuni) migrazione dalla televisione al teatro, il pubblico italiano a guardarsi da dentro.
A mettersi in discussione, ritrovando una propria autoironia e vena cinica, ponendosi addirittura domande esistenzialiste. Perché al di là del pensiero politico a cui Gaber dava peso, egli era considerato all’unanime, e Io, noi e Gaber ne esalta tale aspetto, un uomo libero! Non semplicemente “libero come un uomo”, ma come come una persona che ha cercato fino alla fine punti di aggancio e di dialogo con il suo pubblico. Cercando con loro la provocazione, e non il necessario appoggio. Facendo e dicendo ciò che intendeva realmente fare o dire, e non solo per accomodare il proprio pubblico.
Egli, che era partito dalle orchestre jazz milanesi, e dai suoi club, era poi approdato dentro al mondo della scatola magica del tubo catodico di mamma Rai, per poi abbandonare all’apice del successo televisivo, proprio quel mezzo di comunicazione per approdare a quello che lo segnerà definitivamente per il resto della sua vita. Poiché come ci viene espresso nell’opera di Riccardo Milani, la televisione non dev’essere il fine, ma un mezzo con il quale instaurare un dialogo.
Io, noi e Gaber è un vero atto di amore
Giorgio Gaber ha reinventato a suo modo il rapporto dell’artista con il suo pubblico, e non solamente facendolo riflettere sulla propria condizione, ma andando a scavare e svelare il non detto che in realtà era sulla bocca di tutti. Il suo Teatro Canzone, si presentava come le cose più semplici, senza fronzoli o distrazioni. Sul palco c’era solo lui, e dietro i musicisti che lo accompagnavo nelle canzoni (inizialmente Gaber era solito utilizzare delle basi già registrate per poi cantarci sopra dal vivo). I suoi brani, vera esplosione di un pensiero libero, lungimirante, erano alternati a monologhi altrettanto innovativi. Era in grado sia di farti ridere ma anche di farti vergognare di alcuni comportamenti, quali l’ipocrisia, il conformismo, l’indifferenza.
L’uomo è un animale socievole. Quando incontra qualcuno che la pensa come lui, scodinzola. Da soli non si può far niente, non è che io non dia valore all’individuo. Ma credo che un momento collettivo sia un bisogno dell’uomo per sentirsi vivo.
Riccardo Milani, in quest’opera, che vuole essere un vero atto d’amore, non cerca la discussione o la critica all’artista, ma riporta sullo schermo le parole, le opinioni e le domande di chi ha conosciuto Gaber. Tra i tanti che Milani ha voluto portare sullo schermo, sul suo banco dei testimoni, figurano Sandro Luporini (colui che scrisse con Gaber molti dei suoi brani più famosi), Gianni Morandi, Paolo Jannacci, Jovanotti, Claudio Bisio, Ricky Gianco, Gino e Michele, Fabio Fazio e molti altri.
Tra i tanti però che figurano nel documentario, spicca per ovvie ragioni, la figura della figlia di Giorgio Gaber. La quale fin da subito ci fa entrare nella sua casa, mostrandoci le chitarre e le foto, e portandoci nei luoghi di Milano che più hanno segnato l’artista. Lo sguardo della figlia è sì malinconico per la mancanza e la scomparsa della figura paterna, ma al contempo, ed è lei stessa ad affermarlo io Io, noi e Gaber, ha la possibilità di ripescare tra centinaia di filmati e testimonianze, che le riportano in vita il ricordo del padre.
L’urlo tra rabbia e consapevolezza
Dell’ultimo periodo artistico e produttivo di Gaber è impossibile non citare quello che, forse, è diventato il suo monologo più celebre: Qualcuno era comunista. Così come per Destra-Sinistra, Il potere dei più buoni, Polli di allevamento, o I cani sciolti (e molte altre), il Signor G andava a dare un pesante schiaffo in faccia alla gente, portandole sul palco la cruda verità dell’ipocrisia, di coloro che affabulano e fanno di tutto per avere voce in capitolo nei contesti più importanti.
Però è anche vero che se in molte sue canzoni, dallo spirito allegro e incalzante, la riflessione arrivava il più delle volte in un secondo momento. Per esempio, nella canzone Si può Gaber elenca l’ovvietà di tutto ciò che ci è lecito, arrivando però ad affermare, a urlare in faccia la gente una semplice domanda: “Con tutte queste libertà che avete, volete avere anche la libertà di pensare?!”
Il gioco della presa in giro, e del sapersi prendere in giro lo denotava agli occhi di tutti come una figura ancor più vicina, con la quale era possibile fermarsi alla fine dello spettacolo, con la quale era possibile discutere anche. Riccardo Milani in Io, noi e Gaber mostra, in un modo più sottile ed elegante, questo tratto; ovvero dell’avvicinarsi sempre di più al pubblico. E quello che vuole essere un finale malinconico, risulta invece essere un finale pregno di speranza e fiducia verso il nuovo.
Son gli stessi artisti che partecipano al docufilm a ribattere che anche se Gaber affermava che la sua generazione aveva perso, allo stesso tempo aveva anche vinto. Perché era stata in grado di portare alla luce nuove questioni politiche e sociali, arrabbiandosi e urlando. E tra tutte quelle urla, l’urlo che Gaber era solito fare alla fine degli spettacoli o all’interno di alcuni suoi pezzi, era sì pieno di rabbia, disillusione, ma anche di una consapevolezza e di una verità; ovvero “che non è mai finita, che tutto ciò che accade fa parte delle vita”.
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