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Jean-Luc Godard

Jean-Luc Godard, provocatorio fino all’ultimo respiro

6 minuti di lettura

È corrosiva l’opera di Jean-Luc Godard, agli antipodi di quel vago senso di cura, dell’affettuosa sollecitudine di François Truffaut, come a decostruire un percorso già dato, fattosi frustro nelle sue istanze rinnovanti – soggette a canoni, imposizioni, costanti ritorni all’ordine.

Dei suoi primi lavori solo Fino all’ultimo respiro (1959) reca tracce “convenzionali”, con il montaggio brusco e le citazioni stratificate (da Jean Rouch ai B-movies della Monogram), le riprese con macchina a mano e l’indolenza di Belmondo. Tutto il resto è un gioco di incastri, la ridefinizione di una struttura filmica che procede per sottrazione, intersecando modelli e situazione di avanguardia, mentre i soggetti divengono decentrati, oscillanti tra incontinenza e impedimento verbale.

Un’emulsione figurativa

Persiste, nella sua opera, l’ostilità della Nouvelle Vague verso il discorso comune, eppure – man mano che il tempo avanza – ogni storia risulta deviata, volutamente condotta su sentieri sconcertanti, laddove la trama deflagra, si sfilaccia, e la fiction si contrappone al materiale documentario.

Nessuna attinenza con il narrato, sabotato dai fumetti, dalla pubblicità, dalla storiografia “visiva”; il Godard post-Karina (quello, per capirci, di Fino all’ultimo respiro, del Disprezzo, 1963, del Bandito delle 11, 1965 – incarnazione, come rammenta Scandola, della stagione Moderna) è un saldatore estetico, che mescola generi, modelli narrativi e dispositivi, rompendo il tabù della disorganicità, della corrispondenza mai piana tra cinema e reale.

La sua critica alla tradizione, al mondo entro cui si colloca di traverso, usa le stesse risorse delle pellicole ad alto budget, gioca con i colori e i suoni sino a procedere all’indietro, secondo una spoliazione narrativa che Carlo Scarrone definisce “emulsione di figure di contorno, prive di storia, Un impossibile futuro”.

Il buio prima del sipario». Nell’era del postmoderno Godard non separa il cinema dalla vita, lo concepisce come strumento, un pungolo (ancora) funzionale. E non è un discorso di medium, del passaggio al digitale come rivoluzione (“Non vedo grandi differenze, l’importante è cosa si fa e perché lo si fa”), bensì di modalità, della restituzione dell’immagine allo spettatore e della ricezione della stessa, in un momento – quasi prefigurato – di estensione dell’esperienza filmica fuori dal recinto della sala.

Corpi, colori, suoni

Godard due o tre cose che so di lei
Due o tre cose che so di lei, 1967

Lo spettatore-tipo di Godard è peraltro attivo, compartecipe, disposto alla riflessione sulla scorta di un gioco di associazioni libere, come quelle che puntellano Autoritratto a Dicembre (JLG/JLG. Autoportrait de décembre, 1994), o ancora pescano dalla Storia elementi disturbanti (Sarajevo, Auschwitz, Palestina) sino a proporre un’immagine altra, mai traslucida o falsamente coerente.

Qui si svela la crossmedialità del regista, quell’assunzione di pratiche varie che derivano dalla critica e dalla teoria letteraria, dall’arte e dalla scienza.

Non pochi hanno notato, nella sua produzione degli anni Ottanta, una sintonia con i temi del discorso pubblico (l’origine del mondo, il rapporto tra scienza e religione, la fine delle utopie), un’applicazione – in chiave ancor più radicale – delle sperimentazioni avanguardistiche pittoriche.

Sovente lo schermo contiene solo suoni e colori, e i corpi risultano sezionati da uno sguardo “interno” che, come nota Scandola, porta all’estreme conseguenze il procedimento inaugurato con Due o tre cose che so di lei (1966), “al contempo documento di un oggetto (la città) e indagine su un soggetto”. È come se il mezzo filmico attraversasse i corpi e le cose per riprodurne le fibre biologiche (Godard parla di “plasma in movimento”) sicché la scienza diventa arte, e il cinema incrocia il reale.

La luce di Jean-Luc Godard

Scopo, naturalmente, è la rappresentazione della vita, la fissazione di questa attraverso uno sguardo depurato, che renda visibile la finzione, che “configuri” – dice ancora Scandola – “elementi del reale in un’inquadratura”. L’intera produzione godardiana procede per scarti e ritorni, come a voler recuperare spunti disseminati, riflessioni approntate e perfezionate.

Gli ultimi anni sembrano guardare alle origini, come un cerchio che si chiude con una minima deviazione (mai uguale a sé stesso, mai) mentre la luce attraversa tutto, come un alone magico e demistificante al tempo: “Senza la giusta luce, nessun tableau vivant può vivere e nessun volto può produrre senso”.
Addio al linguaggio, dunque, qualunque sia la sua pretesa.  

Riferimenti bibliografici

D. Bordwell – J. Thompson, Stori del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi, II, Milano, Il Castoro, 1998
J.-L. Godard in A. Frassino, Jean-Luc Godard, Milano, Il Castoro, 2002
M. Marie, La Nouvelle Vague, Torino, Lindau, 1998
A. Scandola, L’immagine e il nulla: l’ultimo Godard, Torino, Kaplan, 2014
C. Scarronde, Il mistero Godard, in “Segnocinema”, 33, maggio-giugno, 1988


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Laureata con lode in Filologia Moderna presso l’Università di Roma "La Sapienza" con tesi magistrale dal titolo Da piazza Fontana al caso Moro: gli intellettuali e gli “anni di piombo”. È giornalista pubblicista e collabora con webzine e riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema e letteratura otto-novecentesca. Ha pubblicato su Treccani.it e O.B.L.I.O. – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca, di cui è anche membro di redazione. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del Cinema Italiano dedicato al cortometraggio.

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