La terza giornata della 27esima edizione dell’Artecinema festival ha presentato al pubblico l’iconica Joan Mitchell in Joan Mitchell, une femme dans l’abstraction. In questo docufilm diretto da Stéphane Ghez, la protagonista viene descritta nel ruolo di artista e soprattutto di donna artista, in un periodo storico in cui i due concetti non venivano associati se non per presentare un uomo e le sue virtù.
Chi è Joan Mitchell?
Mi chiamano selvaggia qui in Europa, perché sono diretta e dico quello che penso, e questo non si dovrebbe fare.
Joan Mitchell
Molte foto scattate durante gli eventi mondani riservati agli artisti la ritraggono accanto alle mogli di nomi importanti quali Jackson Pollock; lei sembra spontanea e a suo agio, solo che con loro non ha nulla a che vedere. Relegata nell’angoletto solo perché donna, spesso riconosciuta solo come partner di Jean-Paul Riopelle, Joan Mitchell è già allora, negli anni ’50, una delle pochissime donne a poter vantare delle mostre dedicate nonché ad essere invitata a fare parte del The Club, il punto di ritrovo newyorkese degli espressionisti astratti.
Figlia di poetessa, abituata da piccola a leggerne per addormentarsi e ammiratrice, da grande, delle composizioni di Frank O’Hara, Joan Mitchell trascorre a New York la fase iniziale della sua carriera di artista per poi trasferirsi in Francia dal 1959. Dipendente dalla sua arte, vissuta accanto a grandi nomi quali Franz Kline e Jackson Pollock e fan dell’impressionismo, è solo grazie a Matisse e Picasso che viene a contatto con l’astrattismo finendo, tra gli anni ’50 e ’60, per plasmare il suo stile a cavallo tra figurazione e astrazione, unico e potente, come lei iconico ancora oggi.
Joan Mitchell, une femme dans l’abstraction, l’arte del rappresentare emozioni
Presentato da Artecinema27 in anteprima italiana, il docufilm diretto da Stéphane Ghez si propone di tracciare il profilo di un’artista focalizzandosi sui tratti che più l’hanno contraddistinta, in un periodo e in un contesto in cui, per una donna, distinguersi era maledettamente difficile. Ecco perché servirsi delle testimonianze dirette di esponenti importanti del mondo dell’arte, ma anche di quelle di persone intimamente legate alla Mitchell, si è rivelata una scelta a dir poco efficiente.
La compositrice Gisèle Barreau, amica dell’artista, si sofferma in particolare sull’uso dei suoi dipinti come modo di rispondere al sentimento dell’abbandono e di annullare il tempo per conservare un sentimento. Che si tratti delle opere legate alla perdita a cui si associano tratti cupi e ombre profonde, o delle tonalità calde e più tenui che contraddistinguono i momenti pacifici, con pennellate corpose che ricordano Van Gogh l’artista cattura le emozioni legate a un ricordo; emozioni che in Joan Mitchell, une femme dans l’abstraction il regista tenta di riprodurre con sequenze paesaggistiche suggestive alternate alle immagini dei dipinti veri e propri.
Posso insegnare a chiunque, veramente a chiunque come dipingere…ma insegnare a provare emozioni è qualcosa di molto diverso!
Joan Mitchell
E così come nell’ultima fase della sua vita, a cui si associano soggetti fluttuanti e chiaro-scuri, anche nelle opere antecedenti alla malattia ciò che emerge è la presenza invasiva di ritmo. Un ritmo, come evidenziato dallo scrittore nonché amico di Joan Mitchell, Paul Auster, percepibile nella composizione e nei tratti e ricreato da Stéphane Ghez dai motivetti in colonna sonora, in onore della musica da cui l’artista si lasciava ispirare .
Joan Mitchell, une femme dans l’abstraction è un docufilm capace di rendere omaggio ad un’artista a tutto tondo elogiandone il carattere forte e deciso, e la capacità di far emergere le sue doti in un contesto in cui il genere sembrava contare di più. Un prodotto, come le opere della stessa Mitchell, privo di filtri, di scuse e di remore, che si spera possa ispirare altri artisti proprio come la sua protagonista fece tempo addietro.
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