Quale pericolo parlare di Jodorowsky. L’ultimo dei surrealisti, il primo degli psicomaghi. Iniziatore di idee malsane, speranze mistiche e culti esclusivi. «Per vedere Jodorowsky devi conoscere l’alchimia!», vi diranno, «per capire il suo cinema devi andare in Messico». Ci perdonerete lo spoiler sull’articolo: ma no, per innamorarti di Alejandro Jodorowsky non devi ballare nudo sotto la luna. Come direbbe lui: basta seguire la danza della realtà. In altre parole, essere vivi.
Alejandro Jodorowsky: di chi stiamo parlando
Di origini ucraine ma nato in Cile, Alejandro Jodorowsky è il trapezista di due culture: oriente e occidente mescolate in un mazzo di tarocchi che non legge il futuro ma interpreta il presente. Il secolo breve, Jodorowsky, l’ha attraversato in continua rivoluzione. Nato il 1929, nel giovedì nero di Wall Street, dopo essere fuggito dalla famiglia, scopre la poesia del sacro e la meraviglia del profano nelle radici religiose del Sud America, per poi arrivare a Parigi nel 1953, dove diventa allievo prediletto di Marcel Marceau, maestro del mimo.
Qui fonda il teatro Panico, avanzando a piene mani nel post-drammatico, il cui palco è un imprevedibile susseguirsi di atti scioccanti. Alcuni spettatori parlano di galline lanciate sulla folla, di carne cruda distesa sul palco.
In qualche modo, Jodorowsky riesce a non sembrare un folle. Il mondo della cultura ne rimane affascinato, mentre l’Accademia lo ignora (ancora oggi) in un reciproco disinteresse. La chiamerà «forma di apprendimento medievale».
Dalla poesia al palco, Jodorowsky arriva sullo schermo. Dopo un esordio accolto con fischi e uova (il teatro Panico in mano al pubblico!), torna nelle sale di seconda categoria con El Topo, nel 1971. Due spettatori d’eccezione faranno la differenza, perché all’Elgin Theatre Aveneu di New York siedono John Lennon e Yoko Ono. La coppia rivedrà il film tre volte, stregati a tal punto da convincere Allen Klein, manager dei Beatles, a distribuire El Topo in tutto il mondo. Da qui, una filmografia di capolavori (La montagna sacra, 1973), tentativi (Tusk, 1980), lunghi silenzi e incredibili ritorni (La danza della realtà, 2013).
Di chi stiamo parlando è difficile sapere. Non ci sono grandi pubblicazioni scientifiche su Jodorowsky, mentre i libri da lui scritti sono fonti inestimabili di spunti, poesia e aneddoti, soprattutto quelli dedicati alla sua famiglia (La danza della realtà e Quando Teresa si arrabbiò con Dio sono testi per ogni stagione).
Nella sua vita ha trattato molteplici forme d’arte (o presunte tali), dando problema a chi cerchi, come noi ora, di inquadrarlo. Gli appassionati di fumetto citeranno i capolavori firmati con Moebius, maestro della nona arte, di cui consigliamo L’Incal. I più mistici ricorderanno l’opera di restauro fatta sui tarocchi di Marsiglia, del tutto rivoluzionati da Jodorowsky e allontanati dal broglio veggente per un approccio più psicanalitico (dovremmo dire psicomagico, ma ci arriviamo).
Ci sono poi i testi letterari, le poesie, il teatro e, come si diceva, il cinema. Quest’ultimo è forse il punto di partenza migliore per conoscere Jodorowsky, perché spiega la sua visione: se è un maestro è quello Zen. Semplice, diretto, persino quando simbolico. I riferimenti all’alchimia, ai tarocchi, alla filosofia, non chiedono requisiti o competenze. Sono stimoli all’inconscio, nella lingua dei sogni.
Jodorowsky non è per iniziati: inizia. Dunque, iniziamo.
Con cosa iniziare: Poesia senza fine
Anno: 2016
Durata: 128′
Interpreti: Alejandro Jodorowsky, Brontis Jodorowsky, Adan Jodorowsky, Pamela Flores
Partiamo dalla fine. Jodorowsky ha quasi 90 anni quando dirige Poesia senza fine, ma le sue immagini si deflagrano sullo schermo e innescano incendi. Dopo La danza della realtà (2013) è il secondo capitolo di un possibile racconto della sua vita, ed è una finestrella cui affacciarsi per scoprire la «Costellazione Jodorowsky».
Inizia a Tacopilla, nel porto cileno da cui Jodorowsky partì alla conquista del mondo. L’Amarcord jodorowskiano assomiglia però a 8 1/2. Un circo di stimoli, atti poetici, amicizie e speranze. Nei panni del giovane regista suo figlio Brontis, già apparso in El Topo. Interessato a diventare poeta fugge dal negozio del padre, calzolaio, e dalle strette maglie della madre, personaggio incapace di parlare se non cantando.
Inizia così la via: «Poesía, alumbrarás mi camino como una mariposa que arde». La poesia come farfalla, l’illusionismo della vita negli occhi del giovane. Poesia senza fine brilla con lo spettatore, incantato da ricordi in cui Jodorowsky fa capolino, nelle parti del sé invecchiato, maestro di errori e privo di giudizi. Forse è questo l’atto psicomagico definitivo: un film per curare la vita. Diretto da Jodorowsky per se stesso, ma invero universale come le migliori autobiografie.
Se fosse una canzone sarebbe Una Chiave, di Caparezza. Se fosse una statua sarebbe il Bernini di Enea, Anchise e Ascanio. Ma è un film, e non potrebbe essere che di Jodorowsky.
Con cosa proseguire: La montagna Sacra
Anno: 1973
Durata: 114′
Interpreti: Horacio Salinas, Alejandro Jodorowsky, Zamira Saunders
Poesia senza fine è il film giusto per iniziare. Ci sono mani nere che allungano gli oggetti ai protagonisti, nani nazisti sui trampolini, grandi scene di gruppo e simboli mistici un po’ ovunque. Tutto in uno scrigno ben composto, che sorprende prima di scandalizzare. Accade però, a chi conclude la visione, di voler sapere di più. Per loro è La montagna sacra, vero cult che smaschera da subito l’aristocrazia cinefila. Perché la storia di nove persone alla ricerca dell’immortalità non si cela in un nebuloso utilizzo di rimandi sciamanici. È invece la trasposizione più fedele e chiara delle credenze misteriche, disvelate e spesso sconfessate.
Le fasi dell’alchimia, i significati dell’enneagramma come le nove tappe per l’immortalità, sono ricucite in una spiegazione pedissequa del loro valore. L’immagine, calcolata nel minimo dettaglio in un gioco di sguardi che parla direttamente allo spettatore, non ha nulla da nascondere. Significa (quasi) sempre solo quello che appare. In questo Jodorowsky è superiore ai suoi estimatori, perché sa raccontare l’oriente con il pragmatismo occidentale, senza trasformare ogni cosa in religione.
Difficoltà per molti, soprattutto nel guardare Jodorowsky, è scindere il simbolo dal suo significato. Ma come nella lettura dei tarocchi, non è quello che la carta dice a importare, ma quello che vede chi la legge.
Inoltre, il film, oltre a essere una pietra miliare del genere (a voi decidere di quale), ha una composizione in due atti che termina con uno dei plot twist più citati di sempre.
Per continuare (ad innamorarsi)
Da qui Jodorowsky si schiude allo spettatore. Potete proseguire con Santa Sangre (1989), una specie di revisione panica dell’horror, per altro prodotto e scritto da Claudio Argento, produttore di Dario. In alternativa potete avvicinarvi a Tusk (1980), fiaba simbolica in seguito rinnegata da Jodorowsky per alcune palesi mancanze tecniche. Rimane però divertente trovarvi simboli e segni cui dare significato.
Ai più appassionati segnaliamo Jodorwsky’s Dune, il documentario che racconta l’adattamento mai realizzato dell’epopea fantascientifica di Frank Herbert. Tra le personalità coinvolte anche Salvador Dalì, Orson Welles, Mick Jagger e i Pink Floyd. Capirete bene perché fu definito «il miglior film mai realizzato». Ben diverso dal film poi diretto da Lynch (il commento di Jodorowsky al riguardo è ormai leggenda: «ero verde per la rabbia. Ma alla fine del film mi rilassai e divenni allegro: il film era una merda»), e chissà cosa dirà dell’adattamento a firma Villeneuve uscito nel 2021.
Noterete però che non abbiamo ripreso in mano El Topo, primo vero successo. Il western iniziatico di Jodorowsky, per molti un capolavoro, sa ammaliare come tutta l’opera del regista. Nella sua divisione in due sezioni – iniziazione del protagonista e immersione nel mondo – ricorda La montagna sacra, senza però quell’ordine compositivo che sappia davvero guidare lo spettatore. A El Topo, se di Jodorowsky vi siete innamorati, arriverete. Il nostro consiglio è di usarlo come punto (e virgola) per ripercorrere il cinema di Jodorowsky, ritrovandone gli elementi peculiari ma venendo ancora una volta sorpresi.
Con cosa non iniziare: Psicomagia – un’arte per guarire
Anno: 2019
Durata: 100′
Interpreti: Alejandro Jodorowsky
Jodorowsky può essere pericoloso. Va interpretato, o il rischio di prendere alla lettera le sue parole può portare al culto più sciocco. In un suo testo storico, chiave per la comprensione della sua arte, Psicomagia (2004), rivelò il senso di alcune pratiche e ricerche che da tempo portava avanti. L’idea è semplice: la psicoanalisi cura interpretando i sogni, portando al conscio l’inconscio. Ma questo, dice Jodorowsky, non ha senso. Ai sogni bisogna parlare la loro lingua.
Ecco la Psicomagia: per agire ai livelli più profondi della coscienza l’individuo deve compiere atti assoluti che stacchino con un morso la testa del serpente, per dirla con un mito. Il suo cinema è intriso di quest’idea, che su schermo porta al limite più straordinario il famoso viaggio dell’eroe. La «terapia panica» vive tra l’arte e l’immaginazione, e può essere eccessiva.
In Psicomagia, per ora ultimo dei suoi film, quasi un capitolo conclusivo del percorso autobiografico, ma più che altro un documentario, illustra modalità e cure di questa pratica. Con una struttura molto basilare – per ogni disturbo una sezione e relativa dimostrazione – il film si propone come dimostrazione definitiva. Ora, per chi già conosce il personaggio Psicomagia è un elogio alla vita da prendere con le dovute pinze che sempre devono accompagnare l’appassionato. Per i meno avvezzi invece è una follia, persino pericolosa.
In futuro Psicomagia sarà un documento chiave per lo studio di Jodorowsky, il racconto per immagini di teorie fino a questo momento esclusivamente rilegate alla sua letteratura. Per ora però, se avete appena iniziato, fate il giro largo e passate più tardi. Il viaggio sino a qui saprà soddisfarvi.
In copertina: Artwork by Madalina Antal
© Riproduzione riservata
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