James Napier Robertson spoglia l’ambizione inquinandone il romanticismo e finalizza un plumbeo coming of age, deriva antitetica di passione e fanatismi. Joika – A un passo dal sogno, al cinema dal 2 novembre, è un brutale dramma umano. Si serve del balletto classico per estirpare le lacerazioni autoinflitte dalle proprie ossessioni: sofferenza, estraneazione e sacrifici presi a prestito come indici di drasticità di una performatività e competitività anti vitali.
Ispirato a vicende realmente accadute, Joika – A un passo dal sogno attinge alla parabola della prima ballerina americana ammessa all’Accademia del Bolshoi e surriscalda di alienazione una battaglia identitaria tra due sé. Le risonanze a Il Cigno Nero di Darren Aronofsky sono impossibili da ignorare, epidermiche nella definizione di un conflitto di esplorazione psichica, calligrafiche nella composizione estetica. Eppure, l’ultimo lavoro di James Napier Robertson sembra mancare sempre del graffio necessario alla direzione scelta. Strappa forte e cicatrizza subito, distendendo una morbosità escandescente che più affonda e meno sfregia, attenuata da una letteralità di superficie dove tutto piroetta perfettamente.
“A volte essere se stessi non basta. Bisogna diventare altro per essere i migliori”
Joy Womack (Talia Ryder) parte dal lontano, da un Texas che la vede quindicenne quando viene accettata, apripista e modello, alla prestigiosa Accademia di balletto del Bolshoi di Mosca. Teatro di antagonismi politicizzati, corrotti, austeri e spietati. Il suo sogno resterà sempre un passo più in là, a prescindere da quanto di sé espellerà per diventare la migliore delle ballerine.
Un’esplosione accesa di colori accompagna i giri che indiavolano i titoli di testa, nebulizzati al passo di una macchina da presa che da subito si amalgama con muscolarità alla sua protagonista, catapultandoci in una Russia ingrigita di qualsiasi vivacità. Robertson la veste di nero per la sua prima lezione, isolandola dalla coerenza bordeaux degli abiti delle sue compagne di corso. E la strema, dal principio. Tatiyana Volkova (Diane Kruger), ex ballerina e direttrice dell’Accademia, l’apostrofa immediatamente, cerca l’errore nella sua ammissione, ne mortifica le radici.
Ma Joy a Mosca ci arriva traboccante di ideali, tenacia e buona volontà. Crede fermamente nell’utopia di diventare prima ballerina nella compagnia del Bolshoi, pensa ingenuamente di potersela giocare alla pari, investe compulsivamente sul perfezionamento del proprio talento. La passione che ne muove i passi inumidisce i suoi occhi di lacrime, l’insistenza erosiva dell’ambizione le fa sgorgare il sangue. Eppure lei non si ferma mai, tenta ossessivamente di diventare altro per integrarsi in una cultura che mai l’accetterà per quella che è. Joika – A un passo dal sogno mette in scena un’assertività che sguscia attraverso la reinvenzione identitaria, e quindi ad esclusione di tutto ciò che di Joy è venuto prima.
Joika – A un passo dal sogno si immerge nel racconto seguendo il paradigma delle storie di artisti alle prese con la ferrea e violenta disciplina delle scuole più prestigiose. Pertanto mulina intorno a ogni suo cliché: il rigido insegnamento, i sabotaggi, il bullismo, il dolore fisico e il sacrificio estremo. Poi però inverte lo sguardo, iniziando a disseppellire il disegno di una narrazione che vira sempre più a fondo verso piste orrorifiche. L’orrore è quello della nocività umana di una ragazza auto-sabotante, disposta a tutto per raggiungere il proprio obiettivo e per questo problematizzata.
Gli unici spaccati felici dell’esistenza di Joy sono quelli condivisi con il collega Nikolay (Oleg Ivenko), imbevuti di una ribellione che suggerisce l’alternativa sana alla coltivazione del talento e perciò, nella nevrotica economia della sua vita, sacrificati al giogo tragico di un annientamento inarrestabile. Lui la vede come persona prima che ballerina, veicolando la sua accettazione nella tenera condivisione delle proprie matrici e nella gentile invalidazione delle controversie sociali.
L’interprete scelto sembra ventilare una certa continuità con il biopic di Ralph Fiennes (Nureyev – The White Crow), diverso per aspirazioni narrative ma simile per dimensione biografica, sebbene di opposte diottrie. Mentre il Nureyev di Ivenko trovava conforto nell’agognata libertà parigina, la Joy di Joika – A un passo dal sogno rifiuta il sogno americano, declinandolo nell’incubo deturpante di una Russia inospitale.
Joika – A un passo dal sogno e da una reale radicalità
Il lago dei cigni ben si prestava alla declinazione psichica de Il Cigno Nero di Aronofsky, lì la proiezione binaria del sé sublimava con schizofrenia il racconto di una crisi identitaria come conquista di una propria purezza e (im)perfezione espressiva. Qui il tentativo è simile, ma il risultato molto diverso. Joika – A un passo dal sogno segue una furia discendente che ne ricalca alcuni passaggi, stilistici e contenutistici. Ma, pur nell’eccezionalità dei fatti cui si rifà, la mano registica tesse tutta la sua tragedia al di sopra di un confine mai realmente straziato.
Quello di Joy non è uno squarcio edificante, l’accezione sulla sua ostinazione non è positiva. L’impegno, la passione e la dedizione sono vincolati alla deformazione, fisica e mentale, di una ragazza incline a danneggiare se stessa. L’originalità della direzione formale di James Napier Robertson è accentrata attorno a tale ambiguità. E con il cuore di questa elusività è modellizzata la caratura di Tatiyana: la direttrice è acre, glaciale e illogicamente umana.
Specchio della protagonista perché suo doppio, votata alla danza al punto da sacrificarne la figlia, fedele al talento tanto da accettare il miracolo compiuto dalla sua Joika. Lei è la sola a donare a Joy un’idoneità, addossandole un nome russo e insinuandosi nella sua vita con spirito contraddittorio. Più complessa e quindi più solida, merito di una scrittura che in questo caso non esita a spendersi, sporcandosi di maggiori contrasti e stratificazioni.
A conti i fatti, l’accesso alla partecipazione di Joika – A un passo dal sogno rimane annebbiato tra le sue ombre, troppo fragile per essere sovversivo, troppo eversivo per essere empatico. Sempre prossimo a una più viscerale, e personale, intensità. Quella sostanzialità James Napier Robertson l’aveva sfiorata con delicatezza nel precedente The Dark Horse; in Joika, invece, ne perde di vista l’essenza. L’intenzione dell’arco drammatico vacilla in termini di leggibilità, raggiungendo un apice controintuitivo rispetto al suo impatto emotivo e redigendo un conflitto interiore che tanto lavora bene sulla soglia quanto denuda male la radicalità del tormento. E allora si rimane incerti, disorientati dal roboante applauso che sigilla un dramma livido ma poco penetrante.
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