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Joker, il pagliaccio di Joaquin Phoenix

9 minuti di lettura

Presentato alla 76^ edizione del festival del cinema di Venezia, nonché vincitore dell’ambito Leone d’oro e di numerosi altri premi, Joker, di Todd Phillips, si dirige agli Oscar con numerose candidature. Molti sono certi che il premio a miglior attore protagonista andrà a Joaquin Phoenix, seppur permanga l’incognita Adam Driver (amatissimo in Marriage Story). Al di là di ogni realtà festivaliera, Joker è stato certamente il film del 2019, odiato e amato sino allo sfinimento, ma giustamente discusso. Vediamo perché.

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«Arthur Fleck voleva solo far sorridere il mondo..»

Le premesse del cinecomic diretto da Todd Phillips sono simili a quelle di tante altre storie di dolore personale. Un soggetto che sognava un futuro invece spezzato da un destino ingiusto. Eppure il Joker d’autore presentato a Venezia prende solo parziale spunto dall’immaginario comune del povero incompreso, muovendo invece il suo sviluppo nei terreni oscuri della malattia mentale. Questo uno dei centri d’interesse di questa pellicola la cui capacità più grande è quella di scaldare il cuore con un personaggio dall’agire raccapricciante. 

Seguiamo infatti le vicende di Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), cittadino di Gotham City con un grande sogno: diventare un comico. Soffre però di una particolare patologia, vagamente identificabile nell’ampio ventaglio dei disturbi post-traumatici, la quale causa in lui un’irrefrenabile e inquietante risata. Scoprire le origini di questa condizione è un passo che Todd Phillips muove solo dopo aver costruito attorno a Fleck un’atmosfera sospesa, in cui la società che circonda il personaggio si fa causa della sua condizione solo nel limite in cui questa è anche causa della società. Le azioni del Joker, ancora prima che esso si autoproclami tale, danno infatti inizio ad un violento movimento di rivolta a cui Fleck è però totalmente estraneo. Esattamente come lui subisce le angherie di una società per cui è invisibile, allo stesso modo lui scatena tumulti di cui non ha interesse.

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Gotham: una domanda o una risposta?

C’è dunque la magnificenza dello studio del personaggio combinato al piacere del racconto urbano. L’accostamento del soggetto al suo ambiente, quando questo, già pronto a esplodere, viene confuso dalla mente annebbiata della malattia. Il lavoro sugli spazi è così un vero e proprio viaggio a sé stante in quest’opera in cui tutto potrebbe esser proiezione del suo protagonista, vicino ad una follia non solo indotta dall’esterno, ma forse già parte di lui. È il legame tra le radici di un albero e il cielo sotto cui si sviluppano, la pioggia acida che ticchetta su terra già inquinata. Arthur Fleck è così manifestazione del contesto, ma anche motore involontario di realtà di cui ignora i risvolti. Ciò che seguiamo è infatti il suo percorso di follia, mentre la società in tumulto gli si accosta come uno specchio che giungerà sino alla rottura.

Conseguentemente è Gotham l’altra faccia del Joker, crogiolo delle peggiori periferie della società contemporanea ed assieme espressione eccessiva ed efficace di divari inaccostabili tra individui sempre più violenti. La metropoli vive così tra le mille ombre di una brutalità latente, captata dalla fotografia di Lawrence Steele con luci che pedinano il corpo sommesso di Joacquin Phoenix, ballando per lui un waltzer il cui partner è il buio di strade abbandonate all’uomo solo.

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Joker: pelle, ossa e follia

Joacquin Phoenix è infatti un Joker dalla fisicità che riempie lo schermo, e su cui inevitabilmente si possono leggere le parole confuse di un corpo in decomposizione. Lì, nella pelle tesa sino a mostrare ossa che Phoenix sembra riuscire a piegare in uno sforzo sovrumano, si nasconde una seconda sceneggiatura, un ulteriore montaggio. La storia complementare di un corpo che narra una psicologia alla deriva.

Viene quasi voglia di emularne le movenze, da quanto iconica sia già questa nuova interpretazione del clown folle, seppur in realtà sia con la voce che Phoenix conduce al successo il personaggio. Una risata isterica, che sta per un pianto. Una risata soffocata, che sta per un urlo. È una ridefinizione dei codici comunicativi in un rinnovato alfabeto di sghignazzi e sogghigni che ghiacciano la sala in un’escalation di tensione.

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Sporco dentro, sporco fuori

Ci ha visto lungo chi osservando il trailer di Joker ha riconosciuto il meglio dell’immaginario scorsesiano, da Taxi Driver a Re per una notteMentre è lontano dalla realtà chi pensava ad un semplice film su un brav’uomo portato alla follia da una cattiva società.

È infatti molto più stratificata e sofisticata di così l’opera di Todd Phillips, il quale certamente allude all’influenza della comunità nella trasformazione (involuzione?) di Arthur Fleck in Joker, ma espande la riflessione su un terreno in cui follia sociale ed individuale si confondono maggiormente. Niente causa-effetto facile e pronta dunque, bensì una riflessione sul convivere in un mondo che è tanto sporco quanto quello che ci si porta dentro. Svelare questi due pianeti, parte di un sistema solare che il cinema della contemporaneità tenta sempre più di porre all’eccesso, è la più grande qualità di quest’opera su un folle che voleva soltanto far ridere e che, in un modo o nell’altro, finisce per farlo.

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Joker, storia di origini

Mentre sul passato incerto del Joker già ci giocava Il cavaliere oscuro diretto da Christopher Nolan e interpretato da Heath LedgerTodd Phillips si prende la libertà di parlare di origini, costruendo una follia che non solo cresce marcendo nel corpo che la ospita, ma che è anche risultato di una malattia che ha fonte nella famiglia. Il rapporto con la madre e le ombre sull’infanzia fanno di Arthur Fleck un soggetto infetto e contagioso, la cui possibilità di guarire è certamente dissolta dall’assenza empatica di chi lo circonda, ma che è forse messa in dubbio sin dall’inizio. Se dunque il Joker sarebbe stato lo stesso in una società diversa è il quesito fondamentale, tanto interessante quanto il suo opposto.

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«Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano», scriveva così Henri Bresson nel suo Il Riso. Ed è forse questo che, proprio come afferma Arthur Fleck in riferimento alla sua vita, rende Joker non solo una tragedia riuscita, ma anche una barzelletta alla cui fine si ride per piangere.

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Studente di Media e Giornalismo presso La Sapienza. Innamorato del Cinema, di Bologna (ma sto provando a dare il cuore anche a Roma)e di qualunque cosa ben narrata. Infiammato da passioni passeggere e idee irrealizzabili. Mai passatista, ma sempre malinconico al pensiero di Venezia75. Perché il primo Festival non si scorda mai.