Candidato a cinque premi Oscar, prodotto dalla WB e disponibile sulle piattaforme a partire dal 9 Aprile, il secondo lungometraggio del regista e sceneggiatore statunitense Shaka King è un film biografico. In Judas and the Black Messiah viene narrata la storia dell’attivista Fred Hampton, leader dell’associazione rivoluzionaria afroamericana delle Pantere Nere. Fin dall’inizio, tuttavia, è chiaro che il punto di vista privilegiato sui fatti rappresentati è un altro, ossia quello del traditore.
Il parallelismo cristiano a cui rimanda il titolo è lampante: in Fred Hampton (Daniel Kaluuya) vediamo un messia carismatico, buono di cuore e determinato a battersi per i valori in cui crede, mentre Bill O’Neal (Lakeith Stanfield) si delinea come un personaggio impaurito, egoista e ambivalente. Da qui Judas and the black messiah, letteralmente Giuda e il messia nero.
Judas and the Black Messiah– ambientato nella Chicago del 1968, come si legge a caratteri cubitali nei titoli di testa- si apre con una serie di filmati d’archivio originali che si mischiano a quelli di finzione; la trama è presentata come lo snodarsi di un’intervista a Bill, che ricalca il formato e l’estetica dell’intervista reale rilasciata dall’uomo per il documentario Eyes on the prize 2 di Henry Hampton (1990).
Durante i primi minuti veniamo a conoscenza della sua storia, e di come, da malvivente che si spaccia per poliziotto allo scopo di rubare automobili, egli divenga una spia ricattata dall’agente dell’FBI Roy Mitchell (Jesse Plemons) ed entri a far parte delle Pantere Nere. L’ambiguità e inaffidabilità del personaggio sono esplicitate fin dalle prime inquadrature. Viene ripreso di spalle, con indosso un cappello “alla Humphrey Bogart” (come dirà più avanti) a coprirgli il volto, che lo spettatore non riesce a distinguere bene.
Judas and the Black Messiah: il messia
Il personaggio che cattura maggiormente l’attenzione, tuttavia, è senz’altro il presidente Fred Hampton, del quale Daniel Kaluuya, perfettamente in parte, ci regala un’interpretazione intensa e sfaccettata.
Sopra il palco, alle assemblee dell’organizzazione, vediamo un leader che non necessita del microfono per farsi sentire, avvalendosi di una voce sonora con la quale urla le proprie idee incitando alla rivoluzione: la differenza tra politica e guerra, dice, è solo lo spargimento di sangue, e ciò a cui deve puntare il popolo è la libertà. Il personaggio ci appare come esempio di rettitudine e giustizia- lo vediamo anche esporre convinzioni femministe nell’aula in cui insegna ai suoi proseliti- ma anche di sicurezza e aggressività.
A controbilanciare quest’attitudine è il lato sentimentale dell’uomo, che si innamora dell’aspirante poetessa Deborah Johnson (Dominique Fishback), rivelandosi di fronte a lei timido e impacciato. Le scene d’amore tra i due si chiudono in dissolvenze, come a voler isolare i momenti di tenerezza in una dimensione di sogno che non vuole scontrarsi con la cruda realtà della rivoluzione armata.
Judas and the Black Messiah: la rivoluzione è l’unica soluzione
“La rivoluzione è l’unica soluzione”. Questo il motto urlato da Fred Hampton alle masse, mentre sostiene la necessità di dare il potere al popolo, il quale deve unirsi nella lotta per la demolizione del sistema capitalistico. E, se alcune divisioni sono più nette (bianchi contro neri, rivoluzionari contro FBI), altre si mostrano come labili e sfumate (le due organizzazioni rivali, Pantere Nere e Crowns, che finiscono per aiutarsi a vicenda).
Fatta eccezione per l’utilizzo del found footage, la regia di King è sobria e lascia che a mandare avanti la narrazione siano i suoi personaggi. Judas and the Black Messiah procede in un’alternanza di urla e sussurri, di sparatorie e silenzi, con una sceneggiatura dal ritmo sostenuto. La musica è partecipe della narrazione, con una colonna sonora che accompagna i momenti commoventi ed enfatizza quelli carichi di tensione.
Judas and the Black Messiah si chiude così come si era aperto, con immagini di repertorio: dopo una serie di titoli informativi sul successivo svolgimento delle vite dei personaggi principali, che rafforzano il carattere semi-documentaristico dell’opera, vediamo Fred Hampton, quello vero, ribadire il concetto che più gli è caro e in cui ha creduto fino alla fine: “I am a revolutionary, I am the people”.
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