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Jumanji, storia di un horror per famiglie diventato blockbuster

10 minuti di lettura

Un paio di anni fa, con l’avvicinarsi dei festeggiamenti di fine anno, un curioso avvertimento dilagava sui social: numerosi utenti iniziarono postare la frase ironica “a Capodanno non urlate ‘Buon anno!’ ma ‘Jumanji’, altrimenti non usciamo dal gioco”. Era un modo per sottolineare quanto l’anno appena passato fosse stato disastroso, costellato da cataclismi naturali e disgrazie di vario genere, eventi analoghi a quelli provocati dai giocatori di Jumanji nell’omonimo film cult degli anni ’90. La battuta fa ridere perché è quasi universale (almeno negli Stati Uniti e in Europa): chiunque sa che non basta raggiungere l’ultima casella del gioco per terminarlo, bisogna gridare “Jumanji” perché i suoi effetti cessino e tutto torni alla normalità. Al di là dell’originalità della battuta, questo piccolo fenomeno social ci dà l’idea di quanto Jumanji sia penetrato in profondità negli animi dei suoi spettatori.

gioco jumanji

Non sbaglio nel dire che questo è, insieme ai Goonies, il film della mia infanzia. Il mio legame con questo film va al di là del suo reale valore (che comunque non è disprezzabile), ma non dimenticherò il giorno in cui mi sono recato al negozio di giocattoli e ho acquistato il gioco da tavolo Jumanji con la voglia di rivivere le straordinarie avventure di Alan Parrish.

Un fan di Jumanji nella sezione commenti di MyMovies

Ha ragione l’utente noodles87: Jumanji è indimenticato e indimenticabile, specie per chi fa parte della generazione Y. Jumanji è cultura pop, al pari di Star Wars, delle polaroid e delle hit dei Queen. Che sarebbe andata così, lo si capì fin da subito, visto l’incredibile successo della pellicola: un incasso di più di 260 milioni di dollari, a fronte di un investimento di 65 milioni.

Fa sorridere che noodles87 compari I Goonies a Jumanji, mettendoli sullo stesso scaffale nella libreria dei ricordi d’infanzia. Tra i due film corre un decennio! Eppure non ha tutti i torti, perché Jumanji è un film degli anni ’80 uscito con qualche anno di ritardo: si presenta come un’avventura per famiglie (Indiana Jones, Ritorno al Futuro), con un cast che include bambini e pupazzi animati (I Gremlins, E.T.) e promette divertimento spensierato adatto a tutte le età.

La lunga storia di Jumanji

Un gioco che sa trasportar chi questo mondo vuol lasciar, tira i dadi per muovere la pedina, i numeri doppi tirano due volte, e il primo che arriva alla fine vince.

Uscito nel 1995, arrivò in Italia con qualche mese di ritardo, nel 1996. Jumanji nasce come trasposizione cinematografica dell’omonimo libro per bambini, scritto e illustrato da Chris Van Allsburg nel 1981. Dato che la TriStar Pictures aveva accettato di finanziare il film a patto che Robin Williams ricoprisse il ruolo principale, il regista Joe Johnston e gli sceneggiatori Jonathan Hensleigh, Greg Taylor e Jim Strain tagliuzzarono e rattopparono la bozza di sceneggiatura più volte per venire incontro all’attore. Fu un’ottima intuizione, perché non solo la presenza del simpatico Robin Williams convinse i genitori a portare in sala i figli, ma la perfomance istrionica dell’attore giocò un ruolo centrale nella buona riuscita del film.

jumanji giocatori

In un’industria volatile come quella dell’intrattenimento, i creatori di Jumanji non persero tempo: si resero conto che Jumanji era la loro piccola miniera d’oro. Così, nel 1996, furono sfornati sia un romanzo sia una serie televisiva d’animazione (in onda fino al 1999).

Anni dopo, nel 2005, ci fu anche un tentativo di ripresa del mondo fantastico di Chris Van Allsburg, con l’adattamento cinematografico di un altro suo romanzo illustrato, Zathura. Il film, diretto da Jon Favreau, non riuscì ad eguagliare il successo di Jumanji (il concept era lo stesso, declinato in ambito fantascientifico e con variazioni nei rapporti tra personaggi).

Da cult a brand, cos’è cambiato?

Oggi Jumanji è più di un film cult associabile a qualche prodotto derivativo: è un brand. Sebbene inizialmente non progettato come universo finzionale espandibile, è evidente che a Jumanji sia toccata la sorte della narrazione estesa, che si sviluppa su più media (non solo cinema ma anche Funko Pop dei personaggi, gioco in scatola che richiama quello del film e molto altro).

I due recenti sequel, Jumanji – Benvenuti nella giungla (Jake Kasdan, 2017) e Jumanji – The next level (Jake Kasdan, 2019), hanno fatto leva sulla nostalgia odierna per gli anni ’80/’90 e proposto un adattamento dell’originale in chiave contemporanea: tanta avventura e tanta azione, attori famosi, comicità, effetti speciali di alto livello, un budget da blockbuster.

Fondamentale l’evoluzione della premessa dalla quale la storia prende avvio: un tempo, Jumanji era un gioco in scatola terrificante perché vivo e senziente, ma inghiottiva i giocatori solo se i dadi e le carte lo richiedevano, adesso Jumanji è un videogioco che deve risucchiare i giocatori solo per essere giocato. È una scelta di marketing molto intelligente, perché permette di vendere facilmente il videogioco del film, ma è in sintonia con l’idea di una narrazione estesa e serializzata: grazie all’escamotage delle tre vite a disposizione di ciascun giocatore, la morte sembra lontana, irreale.

Jumanji ci fa ancora così paura?

Se ripensate al Jumanji di quando eravate bambini, difficilmente tarderete a farvi venire in mente qualche scena da incubo. Beh, non siete gli unici. Dall’incipit da film horror alle storie di omicidio che si vociferano circa la scomparsa di Alan Parrish (il bambino imprigionato nel gioco per 26 anni, interpretato da adulto da Robin Williams), non mancano gli elementi capaci di spaventare un bambino. E quanto è inquientante il fatto che l’attore Jonathan Hyde che interpreta il severo padre di Alan interpreti anche il cacciatore che vuole ucciderlo nella giungla di Jumanji?! Quegli stessi genitori convinti dal carismatico Robin Williams a sottoporre i figli alla visione del film, hanno dovuto ricredersi quando i bambini sono rimasti terrorizzati dall’esperienza. La casa di Alan Parrish e la sua ridente cittadina diventano luoghi spettrali e violenti, dove si rischia la vita.

Animatronica e pupazzi, coadiuvati dagli effetti digitali degli anni ’90 (sì, quelle scimmi pazze, che a rivederle oggi fanno ancora paura, ma perché sono orrende), facevano apparire sullo schermo mandrie imbizzarrite, leoni pronti a sbranare bambini, zanzare dalla puntura letale, enormi piante velenose. La questione più spaventosa di Jumanji, che i sequel hanno eliminato, è che tutto accadeva nella realtà, non serve che Jumanji ti risucchi per morire, è la giungla che viene da te e dai tuoi cari. Oggi quella giungla che Alan Parrish/Robin Williams descriveva come un incubo, dove cose che neanche si possono vedere sono pronte ad ucciderti, è meno misteriosa: i personaggi dei sequel la esplorano, ci permettono di viverla vicariamente.

In sostanza, Jumanji non fa più così paura, neanche ai bambini, ma è rimasto nel loro cuore. E chi lo sa se oggi noodles87, orma trentacinquenne reduce dai traumi infantili risalenti a quella visione del 1995, si sintonizza sulla Rai o su Sky Cinema Family quando passano Jumanji per la millesima volta. Chi lo sa se la prossima primavera accompagnerà i figli o i nipotini a Gardaland, per il nuovo stadio evolutivo del suo cult preferito, l’esperienza immersiva garantita dal nuovo “Jumanji – The Adventure”.


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Classe 1998, con una laurea in DAMS. Attualmente studio Cinema, Televisione e Produzione Multimediale a Bologna e mi interesso di comunicazione e marketing. Sempre a corsa tra mille impegni, il cinema resta il vizio a cui non so rinunciare.

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