Kenneth Charles Loach, nato il 17 giugno del lontano 1936, potrebbe serenamente dichiarare che Io, Daniel Blake sia una storia autobiografica.
Il regista, nonostante la veneranda età, non è ancora pago di consacrare la propria arte al servizio delle istanze sociali, anche le più forti e crude. Figlio di operai, esponente di punta della hard left del Partito Laburista inglese, negli anni ha ottenuto il riconoscimento del pubblico e della critica.
Proprio Io, Daniel Blake, presentato al Festival di Cannes 2016, ha ottenuto a sorpresa la Palma d’oro per il miglior film. Un riconoscimento che ha portato nuovamente alla ribalta il lavoro così necessario del regista inglese.
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Vale dunque la pena analizzare Io, Daniel Blake, questa curiosa concretizzazione dell’io registico.
«Io, Daniel Blake», Trama
Newcastle. Daniel Blake (Dave Johns), carpentiere di 59 anni, dopo una grave crisi cardiaca incorsa sul lavoro, è costretto a chiedere un sussidio di disoccupazione. In una delle sue visite al centro per l’impiego, incontra Katie (Hayley Squires), giovane madre single, con due figli piccoli, che non riesce a trovare lavoro.
Ritrovatisi entrambi schiacciati dal peso delle aberrazioni amministrative e burocratiche della macchina statale, Daniel e Katie stringono un’amicizia unica, portandosi sostegno vicendevole, aiutandosi come loro possibile in questa situazione molto complicata.
Una lotta titanica
Le impressionanti immagini del non più giovane Daniel alle prese con CV, domande di sussidio digitali, smartphone e centri per l’impiego, consegnano una realtà familiare, vicina a chiunque abbia approcciato il mondo del lavoro. Un enorme Leviatano si para dinanzi alle difficoltà dell’ex carpentiere. Un mostro che assume il volto impersonale degli addetti del centro dell’impiego, le voci metalliche dei call center. Come il protagonista, diverse sono le persone che si imbarcano nell’oceano della burocrazia. Spesso finiscono naufraghe sugli scogli delle procedure.
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Daniel, vedovo da qualche anno, non si perde mai d’animo. Incapace di compilare un modulo online, può invece realizzare opere di altissima falegnameria. Instancabile nel rivendicare i propri diritti di cittadino, trova nell’amicizia e nella cura per Katie e i suoi due figli, un ponte di attraversamento sulle difficoltà. Trova anche la famiglia che lui ha perso, con la moglie morta, senza aver mai avuto figli. Queste figure così mancanti, sono così complementari; creano insieme un salvagente fragile, ma tanto basta per galleggiare.
Ideologia? No grazie!
Per chi accusa il regista di essere ideologico, sarebbe opportuno ricordare che ogni film porta il punto di vista idiosincratico di chi lo realizza. Ogni film è ideologico. Lo diventa quando sceglie di mostrare un protagonista, un luogo, una situazione, un’epoca, una stagione, una saturazione precisa. Il valore universale della pellicola non può essere ridotto a campagna elettorale.
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La camera segue i personaggi con un angolo dell’obiettivo che sia il più possibile quello visuale, ponendo così lo spettatore partecipe naturale della scena. Un principio di verosimiglianza che permette una completa empatia con le disgraziate vicende. Proprio il sentimento di vicinanza alla storia narrata provoca l’affioramento di sentimenti più profondi quali la compassione o l’indignazione.
Se lo spettatore assiste in maniera così ravvicinata, il regista non dirige semplicemente i personaggi; è i suoi personaggi. L’Io del titolo del film è prima di tutto quello di Ken Loach. Un’identità poietica che crea e concreta visivamente le numerose persone che affrontano un dramma sociale; che non sono cani, ma cittadini, né più né meno. Il regista diventa così un creatore di storie e di protagonisti, che permettono, a chi li segue, di travalicare i confini individuali, per un abbraccio concreto all’Altro, così simile, così amico.
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