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Raffaele Minichiello e Alex Infascelli sul set di Kill me if you can

Kill me if you can, la vita da film di Raffaele Minichiello

Un documentario che esplora la vita sfaccettata e contraddittoria di un antieroe

6 minuti di lettura

Tre anni dopo Mi chiamo Francesco Totti, Alex Infascelli torna al cinema con Kill me if you can, prodotto da Fremantle Italia e con la collaborazione di The Apartment. Disponibile nelle sale dal 27 febbraio, Kill me if you can è un documentario che racconta l’incredibile storia di Raffaele Minichiello, un italo-americano che fece parlare molto di sé tra gli anni ’60 e ’70, ispirando tra l’altro la nota saga di Rambo.

Kill me if you can, un ambizioso character study

Belloccio e dal carattere estroverso, Raffaele Minichiello è uno dei tanti giovani ad aver preso parte alla sanguinosa guerra del Vietnam. Appena diciannovenne, la sua vita cambia del tutto il 31 ottobre 1969, quando, armato di una carabina nascosta all’interno di una valigia, prende il controllo di un aereo in partenza da Los Angeles, dando inizio al più lungo dirottamento della storia. Le avventure del giovane proseguono anche dopo questo proto-attacco terroristico: tra tragedie personali e una celebrità inattesa, la persona Minichiello si trasforma in personaggio affascinante e ambiguo, continuamente sospeso tra due contesti storici e culturali – quello italiano e quello statunitense – non sempre conciliabili.

Kill me if you can

Tratto dal romanzo Il marine di Pierluigi Vercesi, Kill me if you can è il nuovo character study realizzato da Alex Infascelli, regista di genere che nel 2000 folgorò tutti con Almost Blue, vincitore quell’anno del Ciak d’oro, del David di Donatello e del Nastro d’argento come miglior regista esordiente. Prima di Raffaele Minichiello, nella sua originale produzione, Infascelli aveva posizionato la sua personale lente d’ingrandimento anche su altri characters; nello specifico, su Emilio D’Alessandro, autista e amico intimo di Stanley Kubrick, in S for Stanley, e su Francesco Totti, storico capitano dell’AS Roma, nel già citato Mi chiamo Francesco Totti. Ma è con Kill me if you can che l’indagine sembra farsi più ambiziosa.

L’antieroe dei due mondi

Kill me if you can

Come chiarito da Infascelli in più interviste, il documentario vuole far scaturire una “scintilla cinematografica” a partire da un singolo, clamoroso gesto. Gettare luce e fare chiarezza, insomma; come se la storia di Minichiello necessitasse di un racconto particolareggiato, brillante, che rendesse giustizia alle vicende di una persona che ha sofferto non poco nella vita. Ma che, c’è da dire, ha anche dirottato un aereo e tenuto sotto scacco dei poveri malcapitati. E da qui, il quesito intrigante su cui dovrebbe soffermarsi lo spettatore durante e dopo la visione del documentario: Raffaele Minichiello è un cattivo “giustificabile” o un eroe con ben più di qualche macchia sulla coscienza?

La risposta veicolata dal regista romano non è così netta. L’uomo, originario di Melito Irpino e trasferitosi negli USA ad appena 14 anni, può essere considerato un antieroe dei due mondi; un’anima grigia e complessa all’interno della quale un’italianità basata sull’arte dell’arrangiarsi si scontra con un’americanità violenta. Il risultato di questo conflitto è molto problematico, anche se pregno di potenzialità narrative. L’infanzia, il dirottamento, il processo e la nuova vita nella madrepatria sono ricchissimi capitoli della vita di Minichiello che Infascelli cerca di raccontare nel modo più completo possibile, sebbene, ahimè, qualcosa sembri mancare.

“Dirottati” da Minichiello

Kill me if you can

Il problema principale di Kill me if you can è proprio la ricchezza del personaggio Minichiello, il quale, per essere presentato in modo più incisivo allo spettatore, avrebbe di certo beneficiato di un minutaggio più consistente. L’impressione che si ha, infatti, è che gli scarsi novanta minuti del documentario non bastino a delineare molti aspetti interessanti della vita del soggetto, come il suo rapporto con Tracey, l’hostess con cui l’uomo stringe durante il folle volo un’intensa amicizia, o alcuni passaggi del rocambolesco dirottamento, il quale non riesce ad appassionare quanto dovrebbe. Destino migliore è riservato alla biografia più opaca di Minichiello, quella che lo vede sballottolato fisicamente e culturalmente tra Italia e USA.

È proprio questo tiro e molla tra la madrepatria e il paese d’adozione a plasmare un’identità sfumata che, nel corso di vari decenni, ha provato sia a deflagrare nell’imprevedibilità di una certa rabbia – basti pensare alle conseguenze della guerra nel Vietnam o alle storture storiche degli anni di piombo – sia a raccogliersi nei contorni di un ingenuo esibizionismo, incoraggiato dalla pervasività dei rotocalchi e della neonata televisione. In tal senso, Infascelli, con una discreta prova di regia e di montaggio, è stato furbo a “farsi dirottare” da Minichiello; a farsi condurre nei cieli turbolenti di un uomo che non avrà di certo fatto la storia, ma che la storia ha disfatto a sua immagine e dissonanza.


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Napoletano, classe 1996, laureato in Filologia moderna e con un master in Drammaturgia e Cinematografia. Perennemente alla ricerca di sonno, cibo e stabilità psicofisica, vivrebbe felice anche nel più scoraggiante dei film di Von Trier, ma si accontenta della vita reale insegnando nelle scuole ad amare le belle storie. Nulla gli illumina gli occhi più del buio di una sala.

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