fbpx
Kim Ki Duk Primavera estate autunno

Kim Ki-duk: il regista degli emarginati e della solitudine

Un cinema che non ha ancora smesso di parlare

19 minuti di lettura

Il 10 dicembre 2020, causa complicazioni da Covid-19, è venuto a mancare a Riga, in Lettonia, il regista sudcoreano Kim Ki-duk. Vincitore di premi prestigiosi come l’Orso d’argento di Berlino e il Leone d’oro di Venezia, il cineasta originario di Bonghwa ha lasciato il segno con film venati di simbologia, silenzio e un grande pessimismo che ha saputo sublimare con il suo modo di raccontare storie attraverso la cinepresa, come ben spiega Roberto Nepoti in un suo articolo su La Repubblica scritto due giorni dopo la morte del regista:

Non sarà un autore “comodo”. […] i suoi film sono l’opposto dei feel-good-movie. Spesso traversati da una vena di pessimismo profondo; mai programmatico, però, ma sincero e sentito quasi suo malgrado. Anche se l’amore, a volte, sembra l’unica forza in grado di riscattare il dolore e l’amarezza che assediano gli umani.

Kim Ki-duk: la biografia

La vita, e di conseguenza il cinema di Kim Ki-duk, sono contraddistinti da forti sensazioni di rabbia e odio contro ciò che resta inspiegabile della vita, e da una perenne ricerca di verità e di conquista della felicità in un mondo in cui, come dichiarerà nel suo documentario-confessione Arirang (2011), bianco e nero, bene e male, sono un tutt’uno e la vita umana risulta insignificante.

Quella di Kim Ki-duk è una visione molto pessimista dell’esistenza, complice anche le sue complesse vicende autobiografiche. Il regista sudcoreano nasce il 20 dicembre 1960 a Bonghwa, nella provincia del Nord Gyeongsang. Con la famiglia si trasferisce presto a Seoul, dove frequenterà un istituto professionale agricolo, che per ristrettezze economiche sarà costretto ad abbandonare per andare a lavorare in fabbrica.

Il lavoro in fabbrica, l’arruolamento nella marina a vent’anni e la crisi religiosa sono eventi che determinano la visione del mondo del cineasta, che si farà più dura e pessimista nel 2008, quando sul set di Dream l’attrice Lee Na-yeong rischia la vita nel simulare un’impiccagione. Questo evento porterà Kim Ki-duk ad allontanarsi dall’industria cinematografica, che sembra avergli voltato le spalle e condannato a un mondo di solitudine, dove per sopravvivere bisogna lottare contro se stessi e gli altri.

Trasferitosi nel 1990 in Francia, a Parigi, dove intraprende la carriera di pittore di strada vendendo i suoi quadri e senza aver mai realizzato un’esposizione ufficiale, Kim Ki-duk si avvicina al film da autodidatta, dapprima come sceneggiatore e poi come regista. Il suo primo film, Coccodrillo, risale al 1996, e mostra già gli stilemi del cinema del suo autore: vite ai margini della società, la dimensione del silenzio, sesso e violenza come metodi di comunicazione, e la morte come possibilità di salvezza.

Il successo internazionale arriva, però, con L’isola (2000), presentato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, a cui seguiranno Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003), in concorso al Festival internazionale del film di Locarno, La samaritana (2004) con cui vinse l’Orso d’argento per il miglior regista al Festival internazionale del cinema di Berlino, Ferro 3 – La casa vuota (2004), che si aggiudica il Leone d’argento a Venezia e Pietà (2012), che gli valse, invece, il Leone d’oro.

Il cinema di Kim Ki-duk: caratteristiche principali

Ritornando a quanto scrisse Nepoti su La Repubblica, il cinema di Kim Ki-duk non è di certo adatto a chi è abituato a film che propongono storie con un lieto fine e che offrono spensieratezza e leggerezza. I film del regista sudcoreano sono intrisi della sua vita, fatta di miseria, povertà, ed eventi che in maniera considerevole hanno maturato in lui un’idea pessimista dell’esistenza e del mondo.

È un cinema che porta gli spettatori a riflettere, a non aspettarsi un risvolto positivo di ciò che vede, ma che cerca attraverso la poesia del suo autore di sublimare il dolore dei suoi protagonisti.

Chi sono i personaggi del cinema di Kim Ki-duk? Sono persone solitarie che vivono ai margini della realtà e il cui grido di dolore e solitudine resta sempre inascoltato. Sono senzatetto come in Coccodrillo e Amen, pescatori come in L’isola e Il prigioniero coreano(2016), monaci buddhisti in Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, ma anche strozzini come in Pietà.

Spesso vittime e carnefici sono accomunati da un destino di sofferenza più grande di loro da cui non riescono a fuggire, perseguitati da una colpa e un male impossibili da espiare. In questi film alle volte prende parte lo stesso regista come attore, come a rimarcare la compenetrazione fra il suo cinema e la sua vita.

Quanto alla tecnica filmica, ciò che si può evidenziare è la prevalenza di silenzi, di scene dominate dal buio e da spazi chiusi e angusti, di fisicità dura e spinta e una fotografia che cattura il paesaggio sempre adottando una prospettiva dall’alto e in lontananza, dove i personaggi presi nell’inquadratura risultano, citando lo stesso regista in Arirang, “una parte infinitesimale e insignificante della Storia”.

Tutti questi elementi, che si fanno più estremi nel corso della produzione del regista di Bonghwa, raffigurano alla perfezione un disagio esistenziale proprio dell’autore che si fa universale.

La produzione di Kim Ki-duk si può suddividere in tre fasi. La prima va dal 1996 al 2008: è quella dei primi film, spesso simbolici e sperimentali, che come dichiarato dal regista in Arirangerano considerati duri e poveri, senza abbellimenti, in cui, nonostante le atmosfere di miseria e solitudine, l’amore e la compassione permettono una vera salvezza per i personaggi.

Una seconda fase, da considerarsi vero e proprio spartiacque della produzione kimmiana, corrisponde al 2011, data di uscita di Arirange Amen, film nati dopo la crisi esistenziale vissuta dal regista a seguito del già citato incidente accorso sul set di Dream nel 2008, in cui l’autore disimpara il cinema riformulando la sua visione del mondo. La fase finale, infine, parte dal 2012 e arriva fino al 2019: è il periodo in cui il regista diventa più cupo e pessimista e in cui la sua denuncia sociale si fa più evidente.

Il primo cinema di Kim Ki-duk: possibilità di salvezza

Della prima fase della produzione del regista sudcoreano, degni di nota sono sicuramente Coccodrillo, L’isola e Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera. Questa prima fase è contraddistinta dalla solitudine e dall’emarginazione, dall’amore e la compassione per il prossimo e dalla morte, qui momento, come spiegherà il regista in Arirang, di accesso a un mondo altro, mistico, dove un’altra vita è possibile.

In Coccodrillo, debutto cinematografico di Kim Ki-duk, il protagonista è Yong-pae, detto “Coccodrillo” (Ageo in coreano), un senzatetto che vive assieme al piccolo Yang-byul e a un anziano che chiamano “Nonno” sotto il ponte del fiume Han.

Una persona crudele e violenta, come suggerisce il soprannome, che vive di espedienti, in particolare depredando i cadaveri dei suicidi che si gettano nel fiume. Fra questi, Coccodrillo salverà la giovane Hyun-jang, che porterà il protagonista a maturare una certa compassione verso gli altri, lasciando da parte la sua istintività e crudezza. Coccodrillo, però, non riuscirà a scappare dalla miseria, ma l’epilogo finale suggerisce come la morte gli permetta di raggiungere un mondo altro che nella realtà gli è sempre stato precluso in quanto rifiuto della società.

Un altro reietto della società è il protagonista di L’isola, Hyun-shik, costretto a fuggire dalla città dopo aver commesso un efferato omicidio e accolto nel villaggio turistico di chiatte galleggianti gestito dall’enigmatica e silenziosa Hee-jin. I due rappresentano due solitudini che comunicano attraverso un rapporto amoroso violento e tormentato, in cui la donna recita il ruolo del Caronte che porta il protagonista in una dimensione altra tramite l’unione con una solitudine e una violenza più desolata di lui.

Violenza, solitudine e morte si ripetono in un circolo vitale senza fine nel film Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, una pellicola intrisa di simbolismo buddhista dove il protagonista da adulto viene interpretato dallo stesso Kim Ki-duk.

Il regista interpreta lui stesso il ruolo del protagonista, come dovesse scendere a patti con la sua esistenza a contatto con il male e la solitudine destinate a perseguitare per sempre la sua vita. Ciò è evidente nella scena del monaco che, con una pietra legata al busto, deve raggiungere le pendici della montagna innevata per portarvi la statua di Maitreya, il successore del buddha Gautama e simbolo di rinascita.

Questa scena dimostra come l’accettazione della ciclicità della rabbia, della violenza e della morte permetta un’esistenza che trascende la desolazione della realtà, soprattutto nel momento in cui si condivide questo destino, se si considera che il protagonista stesso diventerà maestro.

Il dittico di Arirang e Amen: la svolta del cinema kimmiano

La scena della statua di Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera diventa parte importante di Arirang, documentario-confessione del 2011 di Kim Ki-duk. Il regista osserva questa scena al computer e, ricordando la sua crisi esistenziale, piange, giungendo alla conclusione che non vi è una vera e propria salvezza dall’asprezza dell’esistenza, poiché “il mio amore è indifferente: resta qui, ma tu lasci, e non puoi che piangere”.

Arirang è una dolente confessione di vita che fa Kim Ki-duk a seguito dell’incidente accorso sul set di Dream nel 2008. Il regista vivrà per tre anni lontano da tutti in mezzo alla campagna, tradito dai suoi colleghi di lavoro e dall’industria cinematografica.

La morte per Kim non è più una porta di accesso verso un mondo mistico e consolatorio, ma diventa un crimine che distrugge i sogni di una persona, che può rovinare la sua vita”, “un dirupo, una porta che si chiude e una luce che si spegne”. La spensieratezza con cui realizzava i primi film “come una macchina” lascia spazio a una confessione in cui il regista emblematicamente si spara al grido di “Ready, Action!” con una pistola che ha lavorato al torchio, rinunciando, dunque, all’idea che l’amore possa veramente salvare il mondo.

Il regista, inoltre, emblematicamente spara anche ai luoghi dei suoi vecchi film, come a sottolineare la necessità di un cambio nella produzione, che si avverte in Amen, film in cui il regista si sdoppia di nuovo.

Se in Arirang il regista dialoga con la sua ombra, qui si sdoppia in una ragazza alla ricerca dell’amato Hee Byung-soo fra la Francia (Parigi e Avignone) e l’Italia (Venezia), luoghi simbolo del successo internazionale del regista, e in un uomo con addosso la maschera antigas che stupra la ragazza e le chiede di mettere al mondo il bambino che nascerà, qui simboleggiante un dolore che il regista ha maturato nel corso della sua vita e a cui deve dare vita attraverso la sua arte.

L’ultimo Kim Ki-duk: l’abbandono della dimensione onirica e la denuncia sociale

L’ultima fase del cinema kimmiano, di cui sono da ricordare Pietà e Il prigioniero coreano, è quella più realista, dove non è possibile un accesso a un mondo mistico e onirico come nella prima fase, dove il simbolismo lascia spazio alla denuncia sociale e l’amore e la compassione non bastano a salvare delle vite condannate fin dall’inizio alla miseria.

Protagonisti di Pietà, infatti, sono lo strozzino Lee Kang-do e Jang Mi-sun, una donna che entrerà nella vita del protagonista dandogli l’illusione di una salvezza attraverso l’amore di una madre che il protagonista non ha mai conosciuto. In questo film è evidente il simbolismo cristiano, con cui Kim ha avuto un rapporto tormentato, annunciato dal titolo che fa riferimento all’omonima opera di Michelangelo, e attraverso cui il regista racconta il disagio sociale causato dall’avvento del capitalismo nella Corea del Sud.

Nella storia raccontata, vittime e carnefici sono sullo stesso piano in una società in cui cane mangia cane, in cui l’amore e l’espiazione delle proprie colpe sono impossibili, e la morte non salva, ma conferma la solitudine e la violenza a cui siamo condannati.

L’impossibilità della salvezza e la condanna alla solitudine sono al centro di Il prigioniero coreano, un film molto più mainstream rispetto al resto della produzione del regista sudcoreano. Il titolo originale, Geumul (“rete”) è molto significativo della concezione della vita di Kim Ki-duk: l’essere perennemente intrappolati in una dimensione universale di solitudine (che non riguarda il solo essere “prigioniero coreano”), violenza e dolore inascoltato da cui non c’è via d’uscita né consolazione, e in cui, come dimostrato in Arirang, ci si sente traditi dagli altri e dalle loro promesse.

Nam Cheol-woo, infatti, il pescatore nordcoreano protagonista, viene ingiustamente trattenuto e torturato in Corea del Sud, dove riesce a resistere per non tradire il suo paese, che al suo ritorno non gli concede un destino migliore. Anche in questo caso la morte conferma la disperazione e la solitudine e l’assenza di un amore salvifico e consolatorio.

Il cinema di Kim Ki-duk tra solitudine ed emarginazione

Che tipo di cinema è, dunque, quello di Kim Ki-duk? È la parabola di un uomo tormentato, che pensava di aver trovato la salvezza attraverso l’amore e la compassione, ma che si è visto sgretolare davanti agli occhi ogni promessa di felicità e di comprensione del mondo.

È un cinema che riflette la disperazione e l’emarginazione di chi è condannato a vivere una realtà di lotta perenne per la  sopravvivenza, senza garanzie di salvezza. Tuttavia, è proprio la settima arte che permette la salvezza, e che porta il dolore e la sofferenza ritratti dal regista sudcoreano a essere condivisa, creando, così, una dimensione dell’ascolto che colma il silenzio di solitudine ritratto dal cineasta.

L’odio di cui parlo non è rivolto specificatamente contro nessuno, è quella sensazione che provo quando vivo la mia vita e vedo cose che non riesco a capire. Per questo faccio film: tentare di comprendere l’incomprensibile.

Kim Ki-duk

Bibliografia: Roberto Nepoti, L’arte di Kim Ki-duk che usava l’amore per salvare il mondo, La Repubblica, 12 dicembre 2020.


Seguici su Instagram, Facebook e Telegram per sapere sempre cosa guardare!

Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club

Laurea magistrale in Lingue e Letterature Europee ed Extraeuropee presso l'Università degli Studi di Milano con tesi in letteratura tedesca e allievo dell'edizione 2021 del Master "Il lavoro editoriale" della Scuola del Libro.
Crede fortemente nel fatto che la letteratura debba non solo costruire ponti per raggiungere e unire le persone, permettendo di acquisire nuovi sguardi sulla realtà, ma anche aiutare ad avere consapevolezza della propria persona e della realtà che la circonda

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.