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Kursk, a proposito di santificazione della bomba atomica

6 minuti di lettura

Habemus Kursk. Finalmente – e mai avverbio fu più accurato – esce nei cinema, in un’estate italiana infuocata e insolita a causa del Barbieland, l’epopea antibellica di Thomas Vinterberg. Kursk arriva così, il 27 luglio facendo capolino dopo i titoli più attesi, quasi cercando di nascondere la vergogna da cinque anni di stop ingiustificati (infatti porta l’anno di produzione 2018).

Artefice della sua distribuzione è la Movies Inspired, che ha coraggiosamente evitato ulteriori lungaggini, qualsiasi fossero le motivazioni. Ma, appunto, il mistero rimane: perché così tanto tempo di attesa, per un film che il resto del mondo ha addirittura visto prima dell’ultima pellicola di Vinterberg, Un altro giro? Quali sono le motivazioni? Minaccia russa o allarme noia?

La trama di Kursk

kursk Léa Seydoux Matthias Schoenaerts scena iniziale matrimonio russia guerra

Kursk è l’inquietante storia vera dell’omonimo sommergibile russo, affondato tragicamente nell’agosto 2000, dopo che alcuni siluri al suo interno esplosero durante un’esercitazione militare nel mare di Barent. I 118 occupanti, tra marinai e ufficiali, morirono quasi tutti nell’istante successivo all’esplosione, fatta eccezione per 23 di loro che riuscirono a salvarsi e a ripararsi nell’unico settore non allagato del sommergibile.

In un montaggio alternato tra i vani tentativi di soccorso sulla terraferma, unita alla disperazione inascoltata delle mogli e figli dei marinai intrappolati, e tra gli (ultimi) attimi di ossigeno dei 23 intrappolati sul fondale fangoso del mare artico, Vinterberg sugella un film atipico nella sua filmografia. Famigliare alla Festen, ma adrenalinico come un film di guerra dal cast stellare (e infatti anche qui i nomi non sono da meno: Max Von Sydow, Léa Seydoux, Matthias Schoenaerts, Colin Firth).

Compie insomma una parabola immaginifica in cui lo spettatore vuole ritrovare l’archetipo del Capitano coraggioso, il suo valore militare è più che altro ignorato per far posto alla sua verve valorosa; un salvatore come il capitano (Tom Hanks) mandato a salvare il soldato Ryan. Allo stesso tempo però il protagonista di Vinterberg è immancabilmente trascinato dalla furia degli elementi: è un padre di famiglia (che non può permettersi nemmeno una bottiglia di champagne), salpa con la convinzione che da lì a pochi giorni tornerà a casa, compie errori dettati dalla fatica e dallo stress. Un eroe improvvisato, che poco ha e poco gli è stato dato.

Vinterberg fuori dalla sua comfort zone

kursk Matthias Schoenaerts siluri nel sommergibile

il film di Vinterberg è, proprio per questo e altri motivi, un concentrato antibellico di emozioni esplosive. Sia che veniamo commossi e sia che rimaniamo col fiato sospeso insieme ai protagonisti intrappolati nel Kursk. Ignoriamo i filosofeggiamenti della stampa estera di allora, e di quella italiana di oggi (si veda la recensione sul n°30 di FilmTv), che accusano il regista danese di uscire da una sua comfort zone stilistica. È vero che Kursk rappresenta una chimera nella sua filmografia, ma è altrettanto da riconoscergli l’impresa di girare un film sul fallimento della cooperazione mondiale, dell’affondamento ideale globalista, della minaccia russa come cosa concreta (già nel 2018!).

Perché Vinterberg lo fiutava nell’aria: fa dire al mummificato colonnello russo Petrenko (Von Sydow) che l’incidente è causato da una minaccia della NATO, orchestra operazioni militari con sommergibili a testate nucleari durante dichiarati e legittimati periodi di pace, deresponsabilizza i vertici che fanno ricadere la tragedia sulla volontà scritta dei marinai di poter, in caso, morire per la patria. Un ottimo film, che la sottotrama militarista svela in tutta la sua insulsa propaganda.

Kursk, il film di guerra in tempo di pace

kursk Léa Seydoux e il figlio scena finale

La cortina di ferro si rialza, quando lo schermo si allarga (interessante il gioco con il cambio di formato). Il passato diventa presente, immediata rappresentazione di una classe militare che non sa fare i conti con niente: la macchina da presa letteralmente affonda con il Kursk, inscenando claustrofobiche scene sott’acqua dove i protagonisti arrancano con lo spettatore, annegano con la complicità di chi è incapace di fare il suo mestiere.

C’è tanta rabbia, tra i pixel di Kursk, un’avversione nei confronti di un mondo indifferente e cieco. Lo stesso mondo che, in un formalismo cattedratico, confida nel futuro dei figli dopo aver ucciso i loro padri. Kursk è, per questo, un film di guerra in tempo di pace. Un’anomalia sì, ma prevedibile. La storia di un paese abbandonato a sé stesso, popoli scavati e svuotati di una propria identità, trasformati in cavie da laboratorio.

È come nell’esperimento di Un altro giro, dove un razionale procedimento umano svela la sua autentica natura selvaggia e irrazionale. Kursk è leggermente diverso, ma la sostanza rimane la stessa: l’incontrollabile distruzione del genere umano prende il sopravvento, con la differenza che, anche se controllata, rimane pur sempre cinica autodemolizione. Diciamoci la verità, se non fosse per l’ironico tempismo della grande filiera distributiva italiana, Kursk farebbe un’ottima accoppiata con Oppenheimer.


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Studente alla Statale di Milano ma cresciuto e formato a Lecco. Il suo luogo preferito è il Monte Resegone anche se non ci è mai andato. Ama i luoghi freddi e odia quelli caldi, ama però le persone calde e odia quelle fredde. Ripete almeno due volte al giorno "questo *inserire film* è la morte del cinema". Studia comunicazione ma in fondo sa che era meglio ingegneria.

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