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La casa di Jack

La casa di Jack, il testamento definitivo di Lars von Trier

Il regista dell'eccesso esplora i confini dell'arte e della morale

6 minuti di lettura

Lars von Trier non sta bene, forse non lo è stato mai. Da un anno gli hanno diagnosticato il Parkinson, ha avuto dipendenze nocive, sulla depressione ha costruito la sua trilogia più importante (Antichrist, Melancholia, Nymphomaniac), ha scherzato con un fuoco mediatico che ancora non ha smesso di imprimergli cicatrici. La casa di Jack, uscito nel 2018 nell’indifferenza di una critica che lo ha abbandonato e un pubblico che non è mai riuscito a comprenderlo, rischia di essere davvero l’ultimo atto cinematografico del regista norvegese. 

The Kingdom Exodusla Serie Tv presentata alla 79° edizione del Festival di Venezia, è solo la chiusura di un cerchio che aveva lasciato aperto e non a caso La casa di Jack è congegnato e strutturato per essere il suo vero ultimo lascito, il testamento di uno dei cineasti più importanti della storia del cinema. L’ultimo lungometraggio di Lars von Trierdisponibile dall’11 febbraio sul catalogo MUBI, assomiglia moltissimo al suo autore, un’opera che racchiude una poetica senza eguali, che personifica un’idea narrativa e visiva congegnata in più di quarant’anni di carriera.

La casa di Jack, un viaggio verso l’inferno

La casa di Jack

La casa di Jack apre il sipario solo per metà. Se la vita di Jack (Matt Dillon) scorre attraverso un flusso di violenza, le voci lontane che parlano sono da qualche altra parte, in attesa che le immagini possano raggiungerle per unirsi di nuovo e spalancare definitivamente il sipario di uno spettacolo tragico e sadico. Jack è un ingegnere che voleva diventare un architetto, un finto artista distrutto dal fallimento, che nella vita ha solo due esigenze: costruire una casa e uccidere. Jack è un inetto che si eleva a superuomo, che compensa i suoi squilibri psichici uccidendo senza remore, senza risparmio, giustificando poi i suoi atti nel nome di un’arte superiore.

Cinque omicidi – cinque incidenti come li chiama Jack – cinque quadri che Lars von Trier dipinge senza nessun freno, senza nessuna moderazione visiva. Racconta la morte disegnandola senza sfumature, Jack domina e sodomizza le sue vittime, le soggioga e le estrapola dal loro mondo per portarlo nel suo, un mondo che segue una morale deviata e che è costruito su fondamenta disturbate e distorte. Un percorso folle che lo porterà lì dove prima esisteva solo dialogo, dove verranno spalancate le porte dell’inferno e Virgilio (Bruno Ganz) lo accompagnerà verso la chiusura di un cerchio tra le fiamme di un luogo simile alla sua anima. 

Elevarsi o soccombere?

La casa di Jack

La casa di Jack è conseguenza, espiazione, analisi. Lars von Trier vomita dentro lo schermo la sua anima, i suoi turbamenti, i demoni che non smettono di perseguitarlo. Attraverso Jack proietta parte di sé stesso, un uomo che eccede e provoca, che ha una visione dell’arte estrema e fuori dai confini etici e morali. Il regista danese ha sempre esagerato, superato ogni limite visivo e attraverso Jack porta all’estremo un discorso complesso su cosa sia l’arte, sul suo ruolo sociale e sui confini che può o non può attraversare. 

Jack è il soccombente Bernhardiano, colui che non riesce, che sprofonda, che fallisce e giustifica il suo fallimento dentro i suoi schemi conoscitivi, che costruisce recinti e case per isolarsi, per sentirsi al sicuro da un mondo che fuori continua ad andare avanti e lo ha lasciato indietro. Jack provoca e irrompe per centralizzare l’attenzione su di sé, per urlare al mondo la sua esistenza, per essere guardato e diventare il nuovo Caravaggio o Glenn Gould, ma ad aspettarlo c’è solo l’inferno e colpe da espiare. 

Lars Von Trier si è messo a nudo, con La casa di Jack si è domandato se ne sia davvero valsa la pena, si è chiesto se abbia realmente fatto Arte o mera masturbazione fine a sé stessa. E lo ha fatto non rinunciando neanche per un istante al suo marchio, alla sua originalità e scabrosità visiva che pone lo spettatore in una situazione di difficoltà, nudo anch’egli di fronte a uno spettacolo che però si trasforma in qualcosa di irrinunciabile. La casa di Jack non fa altro che ribadire l’importanza cinematografica di Lars von Trier, l’unicità di un artista che ha percorso una strada sterrata verso confini filmici che nessuno ha osato mai raggiungere. 

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Il cinema e la letteratura sono gli unici fili su cui riesco a stare in equilibrio. I film di Malick, Wong Kar Wai, Jia Zhangke e Tarkovskij mi hanno lasciato dentro qualcosa che difficilmente riesco ad esprimere, Lost è la serie che mi ha cambiato la vita, il cinema orientale mi ha aperto gli occhi e mostrato l’esistenza di altre prospettive con cui interpretare la realtà. David Foster Wallace, Eco, Zafón, Cortázar e Dostoevskij mi hanno fatto capire come la scrittura sia il perfetto strumento per raccontare e trasmettere ciò che si ha dentro.

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