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La Chimera di Alice Rohrwacher riesuma il Fellini etrusco

15 minuti di lettura

Come abbiamo di recente imparato, a molti uomini capita di pensare spesso all’Impero Romano. Meme e trend social a parte, è indubbio che la cultura ed il mito di quel periodo storico hanno dominato e continueranno a dominare le radici culturali d’Italia: basti pensare agli infiniti musei contenenti reperti storici, ai siti archeologici che paralizzano Roma e al fatto che in molti licei si continui a studiare il latino. Questo purtroppo va a discapito di tutte quelle popolazioni precedenti ai Romani così di frequente dimenticate nelle mostre o saltate durante le lezioni di storia: Sanniti, Sabini ed Etruschi, giusto per citarne alcune.

Ne La Chimera, ultimo capolavoro di Alice Rohrwacher, uscito nelle sale il 23 novembre, un personaggio afferma, parlando in francese direttamente alla macchina da presa: “Del resto mia zia lo dice sempre: se in Italia avessimo tenuto la cultura Etrusca invece di quella Romana, non avremmo tutto questo machismo oggi.” In questa battuta, che è solo uno dei tanti momenti geniali inscenati dalla Rohrwacher, sono contenuti tutti i temi che rendono il film l’esperienza imperdibile che è: femminismo, lotta sociale, malinconia esistenziale, rapporto con la storia, coi ricordi e con la magia, il tutto impacchettato nel più sentito e comprensivo omaggio al cinema di Federico Fellini mai girato.

La Chimera, un crogiolo di spunti

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Un rabdomante inglese (interpretato da Josh O’Connor) spende i suoi giorni con una squadra di tombaroli, scavando sottoterra alla ricerca di manufatti Etruschi. Lo circondano clowneschi personaggi e squattrinati cantastorie, pronti ad immergersi nelle ombre del sottosuolo per guadagnare qualcosa, pur di non piegarsi al lavoro deumanizzante dell’Italia liberista anni ’80. Eppure, i compagni di Artù, questo il nome dell’inglese, non sanno che lui cerca ben altro sottoterra: poco gli importa dei soldi e delle bellezze archeologiche. Artù cerca una via d’accesso all’oltretomba, in modo da rendersi Orfeo della sua amata Beniamina, della quale vede continue immagini, martellanti ricordi.

Appena tornato nel remoto paese in cui ha sempre operato coi suoi compari, prima ancora di riunirsi con loro, Artù sceglie di visitare la madre di Beniamina (Isabella Rossellini, in grandissima forma attoriale) e le sue numerosissime figlie nel loro diroccato castello, a metà fra il rifugio dei Bimbi Sperduti nel Peter Pan della Disney e le riunioni femministe dei corti di Agnès Varda. Lì conosce Italia, un’immigrata brasiliana con due figli e senza documenti, ma piena di gioia e voglia di imparare, che pare ridare vita al protagonista, insegnandogli che ciò che sta sottoterra dovrebbe essere lasciato indisturbato e che anche solo il tentativo di visualizzare immagini del passato le consuma.

Simbolica in questo senso è la sequenza in cui la banda apre una tomba etrusca sigillata da secoli e i dipinti alle pareti vengono immediatamente prosciugati della loro vivacità, contaminati dal mondo esterno di fabbriche, pistoni ruggenti e aria sporca. Perché se in primo piano c’è la personale storia di Artù, Italia e Beniamina e la loro lotta fra presente e passato, sullo sfondo è evidente il parallelismo con la storia dell’Italia intera, nella quale un borgo di campagna viene circondato da ciminiere, stabilimenti e da quel “progresso” economico al quale i clown e i sognatori vogliono sottrarsi sparendo in terra.

Impossibile, in tal senso, non pensare a Il Buco (2021) di Michelangelo Frammartino, nel quale un gruppo di speleologi negli anni ’60 si immerge nel punto più profondo della Calabria, mentre altissimi grattacieli vengono eretti a Milano. I personaggi fanno di tutto per non sentirsi ingranaggi del sistema, finendo col diventarlo a loro insaputa verso la fine del film.

Le sfaccettature tridimensionali della femminilità

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Questo è l’elemento di continuità più forte fra La Chimera e gli altri film di Alice Rohrwacher: una riflessione sul lavoro nel Bel Paese e la morte del folklore che è derivata dalla massiccia industrializzazione della nazione. Ma, con questo, l’altro grande tema ricorrente del film è la femminilità e le sue sfaccettature più tridimensionali: prima non si è citata a caso Agnès Varda, con il suo impegno politico a rendere il femminismo una questione di sorellanza (Réponse de femmes: Notre corps, notre sexe) e la sua giocosità tecnica (Daguerrotypes, Salut les Cubains).

Entrambi gli elementi sono ripresi magistralmente ne La Chimera, il primo con l’ambiente ed i personaggi della famiglia di Beniamina, un vero e proprio queendom, ed il secondo con una serie di accortezze stilistiche (velocizzazione, rotazione della camera, rottura della quarta parete), che mostrano un tipo di cinema completamente libero da ogni regola, scanzonato e poetico al tempo stesso. Eppure il maestro indiscusso di questo tipo di cinema sregolato e avvolgente è Federico Fellini, senza la minima ombra di dubbio. E La Chimera dimostra che forse, fino ad oggi, molti non avessero completamente colto la sua grandezza.

“Fellini, quello di 8½”

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Federico Fellini vive oggi nella cultura italiana come un paradosso: venerato e odiato dagli esperti, frequentato dagli appassionati senza mai diventarne un beniamino e ignorato dal grande pubblico, che ne conosce solo il nome per sentito dire. Chiunque lavori o anche solo frequenti l’ambiente cinematografico sa dell’innegabile impatto che egli ha avuto sulla storia del cinema: la sua influenza è rintracciabile in centinaia di autori, da Emir Kusturica e Bob Fosse fino a Satyajit Ray, creando perfino un vero e proprio punto d’arrivo per ogni regista.

Tante sono le volte in cui si è sentito dire “questo è il suo ” riferito all’ultima produzione di importanti nomi: basti pensare ai recenti Bardo: Cronaca Falsa di alcune Verità (2022) di Iñárritu o a Il Ritorno di Casanova (2022) di Gabriele Salvatores, entrambi sentiti omaggi al capolavoro di Fellini.

Ma, nonostante la riverenza e la ricca letteratura in merito a , la produzione successiva di Fellini non è mai riuscita a connettere con la stessa potenza perché giudicata autoreferenziale, vuota, eccessivamente barocca, al punto che “Felliniano” assunse per qualche decennio una connotazione negativa in bocca a buona parte della critica specializzata: si salvarono solo alcuni titoli come Amarcord (1973) e Ginger e Fred (1986) da giudizi prettamente sfavorevoli.

Ormai a parlare di Fellini con appassionati la risposta è quasi sempre: “quello di 8½?” Ebbene, qualcuno ha finalmente deciso di riabilitare tutto ciò che negli anni non è piaciuto di Fellini e che forse, molto banalmente, non avevamo capito. Alice Rohrwacher ha costruito ne La Chimera un film carsico, che scorre parallelamente a quello narrativo su cui la maggior parte degli spettatori si concentrerà: dalla prima sequenza all’ultima, ogni immagine, ogni suggestione ammiccano e giocano con la filmografia di un Fellini che non ha mai diretto .

Così il protagonista, Artù, si risveglia in treno all’inizio del film proprio come Snaporaz ne La Città delle Donne (1980), ripreso anche dai forsennati ritmi femminili della casa di Isabella Rossellini, tanto simili a quelli dell’hotel occupato dalle femministe in cui Snaporaz si trova prigioniero.

Torna poi la presenza di spiriti e medium come in Giulietta degli Spiriti (1965), una testa di marmo che affonda sottacqua come durante il carnevale veneziano de Il Casanova di Federico Fellini (1977). E ancora il bighellonare da Vitelloni (1953) dei protagonisti e la loro natura farsesca da Clowns (1970), il nome Beniamina che richiama la Gelsomina de La Strada (1954), una statua sollevata con la stessa gravitas del Cristo che apriva La Dolce Vita (1960). Infine la contagiosa filosofia ottimista di Italia la brasiliana e (Le Notti di) Cabiria (1957) la prostituta.

Una magia circense e spirituale

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Vanno poi evidenziati i due punti di riferimento più importanti de La Chimera: Il Bidone (1955) e Roma (1975), la cui importanza trascende il mero richiamo visivo. Nel primo, diretto da Fellini dopo la sua vittoria ai primi Oscar aperti a film internazionali del ’54, una banda di truffatori organizza “bidoni” da tirare a povera gente, seppellendo finti tesori per poi fingersi parroci e preti abbastanza generosi da lasciare i ritrovamenti ai proprietari del terreno in cambio di una modica somma in denaro.

Oltre all’evidente parallelismo tematico, si va ad aggiungere alla questione il senso linguistico di “chimera” e “bidone:” in entrambi i film infatti i due titoli vengono utilizzati da un personaggio per indicare il talento magico dei rispettivi protagonisti, la chimera di Artù -nel senso di assurdità- e il bidone di Augusto.

Per Roma si tratta invece di qualcosa di ancora più profondo: il film è un rarissimo esempio di flusso di coscienza cinematografico, nel quale la macchina da presa vaga per le strade della capitale cogliendone i fantasmi, i saltimbanchi, gli abitanti più curiosi di vignetta in vignetta. Una delle sequenze più iconiche vede un gruppo di archeologi seguire i lavori della metropolitana, bloccati da un’antichissima casa romana ancora sigillata. Ovviamente, entrando in quell’ambiente, l’aria inquinata, i pistoni rombanti e le industrie del XX secolo distruggono le pitture alle pareti. Alice Rohrwacher è riuscita a trovare il nocciolo del proprio film in un’opera del ’75, a riutilizzarlo senza minimamente corromperne l’essenza e a reinventarlo secondo la propria sensibilità.

Per Fellini la questione era inesorabilmente temporale, per Rohrwacher è profondamente spirituale: violare quella tomba, distruggere ciò che non dovrebbe mai essere visto da occhi umani è in parte calpestare il riposo di Beniamina, sporcarne la memoria. L’unico modo per lasciarla intatta e finalmente in pace, è smettere di vederla, andare avanti, riemergere fra i vivi ed assaggiare le giravolte degli uccelli e l’infinità del cielo.

Volano gli uccelli volano, nello spazio tra le nuvole

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Leggere il destino nel volo degli uccelli era pratica Etrusca affidata a rabdomantici uomini misteriosi, detti Àuguri: è interessante notare come la presenza di queste figure sia storicamente attestata anche per quanto riguarda l’Impero Romano, successivo agli Etruschi. “Aprono le ali, scendono in picchiata, atterrano meglio di aeroplani” cantava Franco Battiato. Così l’insistenza, assolutamente non casuale, con cui Alice Rohrwacher inquadra stormi di uccelli durante l’intero film rivela la ricchezza di riferimenti culturali con cui gioca, la coerenza autoriale con cui riesce a trarre ispirazione da cose lontanissime fra loro e a farle comunque combaciare nella sua personale poetica.

Proprio come gli Àuguri furono assorbiti dalla cultura romana, la regista dimostra che nulla è più chimerico della cultura stessa, contaminata da elementi estranei, innestata di stranezze, eppure coerente nella sua stravaganza di belva dal corpo di leone, testa di capra e coda di serpente.

L’intelligenza, la forza con cui la Rohrwacher riesce ad aggregare ed ammodernare le simbologie ed i significati, in particolare felliniani, è ciò che rende veramente speciale La Chimera: non è azzardato affermare che abbia diretto, fra le altre cose, un film tesi che selezioni tutto ciò che più funzionava del Fellini minore e che ci spieghi come dovremmo riapprezzare la sua filmografia più etrusca, lasciando da parte, almeno per un po’, il suo capolavoro romano. Il risultato? Un film complesso, femminile e, nel migliore dei modi, insondabile. Un capolavoro Etrusco.


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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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