Auguri Jep! Auguri Roma!
La soubrette nel party iniziale de La Grande Bellezza
Il cinema è un mistero. Si tratta della principale forma d’arte del 21esimo secolo, senza ombra di dubbio quella più popolare, più immediata ed efficace, ed al contempo una delle più teoricamente complesse e discusse. Largamente diffusa è la tendenza a parlare di cinema come della somma delle arti che lo hanno preceduto: la messa in scena teatrale, la scrittura letteraria, l’afflato impressionistico della pittura, additandolo talvolta come pregio da gesamtkunstwerk (opera completa), talvolta come difetto d’arte senza un linguaggio proprio.
Tralasciando che un felice matrimonio fra immagine, parola e suono sia la necessaria base di un buon film, sarebbe in realtà più corretto parlare di manipolazione del tempo come unico linguaggio specifico del cinema: una sequenza filmica è stirata o stropicciata secondo le regole del montaggio, in termini semplici, bricolage temporale.
Senza stare a scomodare Kulesov o Eisenstein, non è difficile capire come soltanto il tempo incida veramente sulla nostra percezione di fotogrammi proiettati in rapida successione: quel coltello che sale e che scende in Psycho, ci rimane dentro, ci inquieta e disturba perché lo fa con un ritmo ben preciso, intercettato da una mente registica capace di intuire secondo quali intervalli e quali tempistiche quella lama dovrà alzarsi o abbassarsi, dilatando un attimo in un’eternità.
Sono le immagini frammentate, i lunghi piani sequenza, gli slow-motion de La Grande Bellezza a renderlo uno dei prodotti più magistralmente cinematografici degli ultimi 30 anni: si tratta in tutto e per tutto di un irripetibile capolavoro di montaggio, un film che indugia e riflette sul trascorrere del tempo scandendo i minuti con lo stile unico di Paolo Sorrentino.
Sorrentino ad orologeria
Jep Gambardella, ormai celebre protagonista de La Grande Bellezza interpretato da Toni Servillo, vive un rapporto profondamente conflittuale con il tempo: da un lato sembra averne a palate, trascorrendo le sue giornate cullato da un dolce far nulla e dall’agrodolce brusio di feste e trenini, mentre dall’altro sente l’inesorabile avanzare dell’età; lui stesso afferma:
“La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto 65 anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”
Ma il tempo di Jep vive anche nella dimensione malinconica della nostalgia provata non solo per la sua gioventù, ma per un ben preciso ricordo che dal tempo sta venendo lentamente eroso: il suo primo amore, la sua personalissima Grande Bellezza.
Questa centralità tematica del tempo si rispecchia appieno nello stile registico di Sorrentino, che espande e raffina tutte le peculiarità già messe in scena nei suoi lavori precedenti, dal primo L’Uomo in Più fino alle successive Serie TV e ad il suo È stata la mano di Dio. Le sequenze cardine dei suoi progetti sono paragonabili a quelle che nei film action ci hanno abituato a temere il ticchettio di bombe e lancette: sulla scena cala un silenzio irreale, l’immagine si congela immobile, mentre un singolo suono occupa l’intero schermo, preparandoci all’eventuale esplosione dell’ordigno. Tic tac, tic tac. Boom!
Prendiamo come caso studio la prima sequenza proprio de La Grande Bellezza: il film inizia letteralmente con un’esplosione, un colpo di cannone, seguito poi da uno scroscio di applausi e dai ritmici rintocchi di campane, che scandiscono un susseguirsi di silenziose immagini sconnesse fra loro; in questo caso assistiamo fin da subito ad uno dei trucchi preferiti del regista, l’inversione dei ruoli di “esplosione” e “ticchettio“, in questo caso scambiandone l’ordine: la sospesa atmosfera d’attesa nasce nel pubblico dal cercare di capire dove queste campane lo condurranno in seguito allo stordimento iniziale. L’esplosione successiva comincia ad essere costruita da un cantilenante coro, che subentra sostituendosi al ritmico battere dell’ora.
Questo canto sacrale, riflesso della Roma marmorea eternamente pietrificata, viene sporcato dalle urla di una guida turistica, ma non interrotto: non è questo lo scoppio. Il picco, il punto in cui la tensione viene rilasciata arriva col silenzio totale che accompagna il tracollo di uno dei turisti, sopraffatto dalla bellezza della città che sta fotografando: di nuovo, una sovversione del linguaggio di montaggio classico, secondo cui il silenzio assoluto dovrebbe precedere un momento di forte intensità uditiva (si pensi al classico “jumpscare” o, appunto, al momento in cui i nostri eroi devono scegliere se “tagliare il filo verde o il filo rosso”) e non il contrario.
Eppure il coro riprende quasi immediatamente con più intensità, preparando lo spettatore al successivo “botto”: una donna mai vista urla in camera e la scena si resetta. Ora la camera si trova su una terrazza, i suoi movimenti sono rapidi, frammentari, vertiginosi piani sequenza si alternano a tagli netti, mentre intorno vibrano i bassi ritmati di musica da discoteca: e così sarà per tutto il film. La Grande Bellezza è un’unica sinfonia, un concatenarsi di “ticchettii” ed “esplosioni”, lo stridere di violini che ciclicamente (ma senza mai ripetersi) getta le fondamenta per l’imponente intervento degli ottoni, che a loro volta interrompono il ciclo e lo riavviano.
Basti pensare che solo nella sequenza del party abbiamo ben cinque reset “esplosivi”: 1) l’urlo iniziale, 2) la delicata musica della spogliarellista, 3) l’improvviso cambio di ritmo, 4) la Colita e 5) lo slow-motion finale. E da qui in avanti, silenzi, musiche e dialoghi saranno gli strumenti dell’orchestra di Paolo Sorrentino, senza mai perdere il ritmo di questa cacofonia organizzata, scolpendo e rimodellando il tempo secondo la volontà del regista, annacquandolo e allungando i secondi in minuti, oppure assorbendo i giorni in istanti.
La Grande Bellezza, “bello, ma vuoto”
Se da un punto di vista stilistico La Grande Bellezza è congegnato come un ordigno autoalimentato, viene dunque da chiedersi quali tematiche affronti oltre al già largamente discusso scorrere del tempo: balzano alla mente due risposte immediate, entrambe reperibili a loro volta nelle prime due sequenze di film.
La prima riguarda i personaggi inquadrati dalla cannonata in poi: un uomo che osserva un altare militare, una nobildonna intenta a leggere la Gazzetta dello Sport, un barbone addormentato su una panchina e così via. Più avanti nella trama una madre in cerca della figlia, oppure la fugace storia d’amore fra una suora di clausura ed un ambasciatore Africano: tutte le storie di Roma che il film mostra, ma non racconta.
Questo funziona su due livelli: ad una prima lettura, si tratta di fantasmi, di maschere e creature quasi fatate che abitano la capitale più antica e misteriosa d’Europa, suggestioni di personaggi di cui il film stesso potrebbe occuparsi, ricordando agli spettatori che quella di Jep Gambardella è solo UNA storia fra le MOLTE romane. A scavare più a fondo invece, queste storie non raccontate aspettano che Jep le noti, le accudisca e le nutra col suo nuovo libro, atteso da quarant’anni dopo l’uscita del primo e si ponga egli stesso come loro narratore. Eppure Jep è divorato dalla malinconia e dalla incessante ricerca di questa fantomatica Grande Bellezza, conscio di ma indifferente a queste vite che lo circondano.
E questo rimanda al secondo (terzo contando il tempo) tema cardine de La Grande Bellezza: alla fine del party, dopo il monologo del protagonista, il titolo appare timidamente a schermo, in un cielo senza stelle, inquinato dalle luci delle terrazze, nascosto e appena visibile sotto la coltre di luci umane che mantengono sveglia Roma anche di notte. “La Grande Bellezza” letteralmente offuscata dall’attività umana. Questa solo apparentemente innocua scelta grafica è premonitrice del vero fulcro emotivo dell’esperienza: la ricerca del bello, del “senso”, dell’innocenza giovanile con cui si guarda il mondo.
Quando Jep conduce Ramona (Sabrina Ferilli) attraverso i palazzi regali aperti da L’Uomo delle Chiavi, attraversano gallerie impolverate, ammirano statue abbandonate al buio, quadri relegati all’anonimato, si imbattono in tutta l’intrinseca bellezza di Roma, sempre più sopraffatta dalla pochezza delle persone che la abitano e dalle loro abitudini, metafora di condizione esistenziale dell’uomo in relazione al mondo intero. Anche Jep, in mezzo alle proprie lascive abitudini cerca di mantenere a galla i pochi “sprazzi di bellezza” che ancora affiorano grazie alla sua sensibilità: una suora che rincorre un bambino, due giovani che si baciano, la migrazione dei fenicotteri, il ricordo del suo primo amore.
Parabola di vita e salvezza
Per concludere, La Grande Bellezza è un film infinitamente più positivo di quanto non si creda: nel corso degli anni, sia il pubblico specializzato che quello popolare sembrano aver preso in antipatia il film, il primo perché “in Italia si perdona tutto meno che il successo”, il secondo per la tremenda messa in onda del film dopo la sua vittoria agli Oscar del 2013, macellato da interminabili pubblicità e dall’inefficacia degli schermi televisivi dell’epoca.
Altri ancora sostengono che il capolavoro di Sorrentino sia una copia de La Dolce Vita, senza nemmeno rendersi conto che i film in questione possono al massimo essere speculari e quindi non sovrapponibili: se Fellini scelse di raccontare lo sprofondare nella noia e nel barbarico cinismo di un animo sensibile, Sorrentino ne racconta la redenzione, la volontà di sottrarsi all’indifferenza, tessendo di fatto una parabola di vita e salvezza, capace di far riflettere su cosa possa valer la pena definire “bello”.
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