Dopo la meritata accoglienza all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, a partire dal 7 marzo arriva in alcune selezionate sale italiane il film prodotto e distribuito da Luce-Cinecittà diretto da Roland Sejko. Nella decina finalista per il Miglior documentario ai David di Donatello La macchina delle immagini di Alfredo C. ripercorre alcuni momenti della vita di un uomo come tanti, costretto ad assistere impotente ad un destino più grande di lui.
La macchina delle immagini di Alfredo C. è la storia di un operatore cinematografico che dopo aver filmato le grandi gesta del regime fascista viene spedito in Albania per documentare l’occupazione fascista del territorio nell’aprile del 1939. Ma nel novembre del 1944 l’Albania è libera e Alfredo C. (Pietro De Silva) insieme a migliaia di italiani, operai, coloni e tecnici, resta intrappolato nel nuovo regime comunista che ha deciso di chiudere i confini con l’Italia e imponendo particolari condizioni per il rimpatrio dei cittadini.
Una storia che continua a ripetersi
Non basta un giorno della memoria per ricordarci cosa abbiamo potuto farci tra esseri umani. A ricordarcelo sono le immagini che da quasi quindici giorni sono entrate con passo sicuro nella nostra dieta mediatica.
Ci siamo annientati, poi ci siamo abbracciati, abbiamo curato le ferite e ci siamo promessi che non avremmo mai più messo in pericolo l’integrità umana. Ma forse l’essere umano è così, non ne ha mai abbastanza. Ci siamo illusi che nulla sarebbe più andato perso, che imprimere l’orrore sulla carta, sulle tele e sulla pellicola ci avrebbe aiutati a non ripetere gli errori del passato.
Ma la macchina non mente, ci guarda impassibile perché lei era presente in ogni frammento che abbiamo scelto di farle imprigionare. La macchina da presa ci sta guardando e non sappiamo per quanto altro tempo ancora continuerà a tacere.
Il cinema tattile
Nel film di Roland Sejko l’attesa rende pressante la necessità di riguardare dove si è giunti, così Alfredo C. nella solitudine straziante di un piccolo eroe del racconto, sceglie di ridare corpo agli archivi della sua/nostra memoria per mezzo del movimento, grazie alla sua amica e compagna Prevost. Già, perché La macchina delle immagini di Alfredo C. non è soltanto un film sull’urgenza di mettersi a nudo per offrirsi alla memoria, il film di Roland Sejko è un’ode al cinema, quel cinema delle emozioni fatto di organicità, cellulosa e argento maneggiati con cura umile e sapiente di artigiana maestria.
L’importanza della tattilità delle immagini pervade questa storia di esseri umani, ricorrenti e predominanti sono infatti i rimandi all’importanza del contatto, come se questo possa concederci la possibilità di comprendere meglio qualcosa e che non riusciamo a farlo con gli altri sensi.
La macchina delle immagini di Alfredo C. e il suo racconto degli umili
Quasi giunto al centenario, l’Istituto Luce coglie l’occasione per riflettere su un cinema anziano, nella sua accezione tecnica, e sul suo ruolo all’interno del cinema di propaganda. Per mezzo di un vastissimo repertorio di immagini veniamo introdotti in una storia personale, quella di Alfredo C. che quelle gesta di pretenzioso divismo le ha viste realizzarsi da dietro il foro della macchina da presa.
È qui che il cinema si racconta: ci è infatti capitato spesso di vedere frammenti dei discorsi del duce ma potremmo dire lo stesso di chi ha generato quelle immagini? Alfredo ripercorre laconico i grandi avvenimenti che ha registrato e nel farlo ci regala la sua storia, piccoli dettagli e aneddoti avvenuti sotto gli occhi di tutti ma di cui nessuno conosce l’esistenza.
“La folla urlava e si dimenava, e la mia macchina non riusciva a stare ferma”. In La macchina delle immagini di Alfredo C. l’operatore descrive con cura i dettagli tecnici, gli obiettivi usati per ciascuna inquadratura; come si posizionavano i cineoperatori su tetti e statue per restituire l’enormità delle folle al seguito mussoliniano nei suoi primi anni di “splendore”. L’impotenza di questo uomo/macchina è evidente proprio nel suo scivolamento al servizio di un susseguirsi di governi diversi senza che possa realmente influire sui misfatti che si consegnavano alla storia.
L’uomo con la macchina da presa
È lecita e dovuta la riconoscenza di Roland Sejko nei confronti del cinema teorizzato da Dziga Vertov che nel 1929 con L’uomo con la macchina da presa prendeva atto, di quella durezza impassibile della cinepresa. Un cineocchio molto più perfetto di quello umano, capace di penetrare in profondità nel mondo visibile, capace di esplorare il caos dei fenomeni visivi che riempiono lo spazio.
Così come per Vertov anche Sejko non si abbandona al simulacro impolverato della mera imitazione della visione naturale. La macchina da presa in quanto costrutto umano, non eredita dal suo padrone la sensibilità del gesto che imprime, ed ha così bisogno di essere guidata per innestare l’impatto emotivo del suo spettatore. Ed è la moviola lo strumento che secondo Dziga Vertov dona l’impianto artistico/umano alle immagini.
La moviola è per antonomasia lo strumento del movimento. Accarezzata, gestita, controllata dalla mano dell’arte umana che permette di superare il limite dell’imperfetto occhio umano. Alfredo C. è statico e fermo nella sua situazione in attesa di essere rimpatriato, imprigionato come i fotogrammi raccolti in più di vent’anni, ha bisogno di rimettere in vita quelle immagini e per farlo si serve del secondo personaggio di questo film: Prevost la macchina che restituisce il movimento ai fotogrammi.
In La macchina delle immagini di Alfred C. Le preziose e inedite immagini d’archivio fornite dall’Istituto Luce si offrono a Roland Sejko come il prodotto di quella copiatura del reale che ha bisogno di un racconto, una drammaturgia che possa avvalersi di un uomo qualunque per raccontare una storia universale. In questo senso il progetto di Sejko assume la valenza di un’indagine antropologica che abbandona il logoro magazzino colmo di pellicole in cui è rifugiato Alfredo C., per immaginare un racconto di prostrazione umana necessaria ai fini della sopravvivenza.
Il milite ignoto senza allori
Ne La macchina delle immagini di Alfredo C., Sejko si serve di una storia per raccontarne altre centomila, tutte uguali e tutte diverse, fatte dai comuni, da quelli che operano per conto di chi decide per la vita degli insignificanti. Alfredo Cecchetti, questo il nome trovato dal regista tra decine di centinaia di richieste di rimpatrio conservate nell’Archivio Centrale d’Albania.
Un foglio logoro e ingiallito dal tempo, poche righe e una firma sbiadita che celano una storia lunga una vita ma di cui si sono perse le tracce. Come spiega Sejko infatti, non è stato possibile rintracciare gli eredi dell’impiegato dell’Istituto Luce, se ne sono perse le tracce ed è passato così dall’essere un personaggio reale ad uno di finzione.
Il racconto in voice-over del protagonista procede a ritmo preciso ma scandito dalla stanchezza della voce rassegnata di un grande anonimo della storia, una sorta di milite ignoto meno aulico e commemorato. La macchina delle immagini di Alfredo C. non ha un inizio e non ha una fine, si apre su un istante del protagonista e si richiude nel medesimo, pur essendoci la spinta per la prosecuzione in avanti, il movimento è frenato in un negativismo dosato, quasi impercettibile.
La macchina delle immagini di Alfredo C. è il ritratto di uno fra i tanti che assiste impotente alla tragicità dell’impetuosa ciclicità che macina impietosa la storia dell’umanità. Racconta, inciampa e si ripete, la pellicola viene tagliata, sezionata e (vivisezionata) in quella sua forma organica (pelicula= piccola pelle), sfilettata e poi ricucita come i grandi traumi dell’uomo. Riunire due parti scomposte per evitare che si sleghino e restino due lembi divisi.
Seppur la pellicola in quanto testimone di storie lontane abbia lasciato il posto alla fluidità del digitale, la nostra storia sembra essere fatta per essere ripetuta. Il patto di rancore è suggellato, chilometri e chilometri di pellicola strisciano colme di vita tra le mani di quell’Alfredo C. un semplice uomo che prova a dare un senso diverso alle immagini ma che continuano a ripetere una storia già vista.
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