Continua l’appuntamento di I wonder classic che questo mese, a partire dal 13 marzo, riporta in sala dopo cinquant’anni La maman et la putain di Jean Eustache. Il film è distribuito in collaborazione con Unipol Biografilm Collection e arriva in sala nella versione rimasterizzata in 4k già presentata al Festival di Cannes 2022, occasione in cui il film è tornato alla ribalta dopo anni passati nel dimenticatoio.
La maman et la putain, infatti, era stato presentato per la prima volta al Festival di Cannes del 1973 vincendo il Grand Prix Speciale della Giuria, ma a seguito della morte di Eustache era come sparito. L’iniziativa di I wonder classic offre la possibilità di scoprire, o ritrovare, uno dei capisaldi del cinema francese che celebra la Nouvelle Vague.
Il cinema francese: un tuffo nel passato
Jean Eustache appartiene a quel gruppo di registi che sono sbocciati immediatamente dopo la Nouvelle Vague. La maman et la putain, quindi, assorbe e fa suoi gli umori, i temi, gli espedienti tecnici e un certo modo di raccontare unici del cinema francese degli anni ’70, che a sua volta rifà al famoso movimento culturale post-bellico.
La Nouvelle Vague è un movimento cinematografico francese che si sviluppa tra gli anni ‘50 e ‘60, un fenomeno complesso ed eterogeneo frequentato da diverse anime; infatti, se il cuore del movimento è riconducibile alle personalità che formavano i Cahiers du cinéma, in realtà i registi che possiamo ascrivere alla tendenza sono molti di più, tanto che possiamo allargare il raggio d’azione anche alla generazione successiva, quella degli anni ‘70, a cui appartiene proprio Jean Eustache (oltre che, per esempio, Jacques Doillon, Philippe Garrell, Léos Carax e André Téchiné).
Convenzionalmente si fa iniziare la Nouvelle Vague nel 1959 in concomitanza con l’uscita de I quattrocento colpi di François Truffaut, ma in realtà il movimento ha le sue radici già qualche anno prima, solo che i segni erano sparsi e isolati.
In generale possiamo dire che la Nouvelle Vague si caratterizza per il distacco dal cinema commerciale e tradizionale proponendo, al contrario, un cinema più sperimentale e personale: sperimentale, perché l’uso di tecniche di ripresa totalmente nuove e originali diventò immediatamente la cifra stilistica del movimento, tra tutte possiamo citare la tecnica del jump cut, o il ricorso a sceneggiature meno stringenti e quindi anche una maggior libertà e improvvisazione sul set; personale, soprattutto perché le tematiche trattate sono quasi sempre riconducibili alla vita degli autori, ai temi della giovinezza e della nuova libertà sessuale, con molti riferimenti anche alla realtà contemporanea.
Jean Eustache, e il cinema francese
Per riprendere una frase di Eustache: “I film che faccio sono autobiografici come la finzione può essere”. Il suo cinema, infatti, possiede echi fortemente autobiografici, traslati nel mezzo cinematografico attraverso un atto di romanticizzazione e arricchiti con riferimenti puntuali ai fatti sociali a lui contemporanei. I moti del ‘68 sono un esempio, o, ancora, la cultura cinematografica, letteraria, artistica che pervade la società del tempo.
A osservare la sua filmografia si rimane come sconcertati perché ci si ritrova di fronte a prodotti discontinui e di difficile distribuzione, dalla durata anomala che può variare dai diciotto minuti fino alle tre ore, in un continuo andirivieni tra documentario e finzione, tra realtà e invenzione.
Eustache si suicida nel 1981, a soli 42 anni, forse a seguito di un periodo vissuto in una profonda depressione. La sua figura e il suo cinema sono stati oggetto di un intenso recupero critico negli ultimi anni: si pensi di nuovo alla proiezione di La maman et la putain, in occasione della settantacinquesima edizione del Festival di Cannes del 2022.
La maman et la putain, la critica alla morale di Eustache
Un triangolo amoroso incerto, il sogno erotico di un giovane francese, le divagazioni di pensiero di un rivoluzionario senza più la rivoluzione, una riflessione sulla donna e sul suo ruolo, oltre che sull’idealizzazione patriarcale. La maman et la putain è questo, molto più di questo ma anche molto meno. Molto più semplicemente è un pezzo di vita di un giovane ragazzo francese immerso nella concezione post sessantottina, ma non realmente impegnato ne politicamente ne socialmente.
È il racconto del suo rapporto con le donne: una che lo accudisce, che si prende cura di lui, che lo mantiene, che gli cucina, in qualche modo che ricopre funzioni materne, l’altra che lo attrae, un po’ intellettualmente, un po’ sessualmente, un po’ ipoteticamente. Quando accade, i due riescono a fare sesso, e così si ritrovano tutti e tre a vivere sotto lo stesso tetto, mettendo in scena un teatrino di coppia aperta non davvero pronta a esserlo.
Allora forse in La maman et la putain possiamo vedere la messa in scena di una generazione che delle vittorie delle battaglie di cui si è fatta portavoce, alla fine, non sa davvero cosa farsene. L’impegno, il pensiero, gli ideali che animavano i moti del ‘68 non si trovano in La maman et la putain, se non sottoforma di citazioni superficiali e stanche nella bocca di una generazione che si è scoperta svogliata all’impegno.
È come se Eustache criticasse la gioventù dalla morale borghese, quella che aveva reclamato a gran voce la liberazione dalle convenzioni sociali, per essersi rivelata incapace di mantenere le promesse. Questi giovani sono solo capaci di perdere tempo, di ripiegarsi su sé stessi, e di dare voce ai propri interminabili giri di pensiero.
Perché La maman et la putain è un film di parole, parole, parole, molto più che di reali avvenimenti, ma questo non è sempre un problema. Il film trova la sua forza nella parola, nell’attenzione al dialogo e alla conversazione, che sono utilizzati come strumenti per l’introspezione psicologica dei protagonisti.
La parola è al centro di ogni inquadratura, fissa e prolungata sui volti dei personaggi in modo da mettere in luce le loro espressioni, i loro moti interiori, e svela, scena dopo scena, il pensiero intimo dei protagonisti, la loro visione del mondo e il loro rapporto con la società. È la Nouvelle Vague che si ripiega su sé stessa, che si prende gioco di sé, un po’ ironicamente, un po’ amaramente.
Ci sono tante cose dentro La maman et la putain, ma la più grande, a riguardarlo adesso, è lo sguardo di Eustache alla propria contemporaneità e a sé stesso; il proprio mettersi a nudo come rappresentante di una generazione che appare perdente, capace solo di proclamare slogan e che poi della libertà non sa davvero cosa farsene.
La rappresentazione della donna in La maman et la putain
In La maman et la putain, attraverso il dialogo, vengono esplorati vari temi come le dinamiche esistenti nelle relazioni d’amore, chi detiene il potere e il controllo, e di conseguenza il ruolo della donna e il suo rapporto con l’uomo. Il tema della donna e della sua rappresentazione è centrale nel film, anche se bisogna ricordarsi che la concezione proposta e trasposta è sempre quella maschile.
Come il titolo suggerisce, potrebbe sembrare che il film proponga una visione stereotipata della donna, che nonostante le battaglie di liberazione del ’68, può soltanto ritrovarsi nel ruolo di madre o in quello di puttana. Da una parte è così, ma le due donne protagoniste, ognuna riconducibile a un ruolo preciso, cercano per tutta la durata del film di liberarsi dallo stereotipo assegnato loro, di svincolarsi dallo sguardo imposto loro dal protagonista e di diventare autonome.
Queste donne devono fare i conti da una parte con una società che è ancora dominata dagli uomini e dall’altra con un sempre più forte desiderio di libertà di pensiero e azione rivendicato proprio nei moti del ’68.
Questa dicotomia viene esemplificata proprio nel rapporto con Alexandre che da una parte le emancipa svincolandole dal ruolo borghese imposto, ma dall’altra le incatena al controllo esercitato loro dall’uomo. La continua lotta delle donne contro le aspettative maschili, e quindi sociali, è uno snodo interessante all’interno del film, trattato con delicatezza e attenzione, un documento importante di una generazione propostoci attraverso l’occhio e il pensiero di un regista troppo spesso ignorato.
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