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Venezia 80 – La meravigliosa storia di Henry Sugar, oltre la quarta parete

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5 minuti di lettura

“Ascoltare qualcuno che legge ad alta voce è molto diverso che leggere in silenzio”.

Durante la visione de La meravigliosa storia di Henry Sugar, l’atteso cortometraggio di Wes Anderson presentato nella sezione Fuori Concorso a Venezia80, non possono che affiorare tra le righe le parole del narratore-viaggiatore del romanzo calviniano Se una notte d’inverno un viaggiatore. Wes Anderson è in fondo un autore totale, un amante impegnato della settima arte, che ha dimostrato nel tempo un certo attivismo culturale spesso sottile (e quindi incompreso).

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Infatti, dopo Asteroid city a Cannes76, il regista americano sbarca anche al Lido con un mediometraggio piccolo ma ricco, che riprende una storia firmata da Roald Dahl (di cui Anderson aveva già trasposto il suo Fantastic Mr.Fox) e che verrà distribuito su Netflix il prossimo 27 settembre.

Il surrealismo de La meravigliosa storia di Henry Sugar

Wes Anderson è, d’altra parte, lo spirito libero del cinema americano. Non lascia nel vuoto eventuali critiche al settore e alle nuove sperimentazioni cinematografiche. Infatti, anche nel suo minuscolo spazio vitale La meravigliosa storia di Henry Sugar lena e si discosta da un neo-pseudo-cinema-pulp. Insomma, Wes Anderson sembra cercare quell’espediente surreale in grado di snaturare l’elemento inquadrato, al punto di innalzarlo.

Non è una novità in realtà, è dalle sue prime pellicole che la cifra autoriale di Wes Anderson si concentra soprattutto sul rimettere in discussione le moderne tecniche cinematografiche. Se Luc Besson, infatti, a Venezia porta Dogman, un film essenzialmente simbolista e dettato da un’iconografia fine a sé stessa, La meravigliosa storia di Henry Sugar, analizza l’oltrecinema, e lo fa su tutti i fronti.

La regia sopra le righe di Wes Anderson

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La regia è ferma, millimetrica, fuori da ogni sorta di schema kitsch. La sceneggiatura è esasperata, crogiolante di meta-narrazioni schizofreniche. La recitazione è sovraesposta, abbozzata ma mai lasciata al caso; la scenografia e i costumi vogliono per forza lasciarci osservare attraverso l’infrastruttura che le ha create. Non è meta-cinema, insomma, è di più: esasperazione della forma e del canone, che Wes Anderson ha imparato a gestire negli anni (chi crede ancora che Rushmore sia migliore di The French Dispatch?) e a innalzare ad autentico spettacolo, con la S maiuscola.

Di cosa parla La meravigliosa storia di Henry Sugar

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E ciò a partire dalla trama. Infatti, vedere La meravigliosa storia di Henry Sugar fa lo stesso effetto di quando si vuole aprire una matrioska: Roald Dahl (Ralph Fiennes) apre la vicenda e narra di un uomo estremamente ricco, Henry Sugar (Benedict Cumberbatch), che, trovando per caso un libro nella biblioteca di famiglia, viene a conoscenza della storia di Imdad Kahn (Ben Kingsley), uomo indiano di inizio Novecento che imparò una particolare tecnica per riuscire a vedere senza usare gli occhi.

Storia nella storia, visione nella visione, per un cinema che cerca fiutando – non attraverso gli occhi, ovviamente – qualcosa di inaspettato e nuovo. Una sensazione? Una nuova emozione? Con sfregiante e giustificato divertimento, Wes Anderson si propone allo spettatore disilluso, che pensa di conoscere tutto senza aver visto ancora nulla. In effetti, non lascia nessun dubbio. È dinamico, sprezzante, è cosciente del potere che ha. La meravigliosa storia di Henry Sugar è condensato, infatti, in un piccolo arco di tempo che potrebbe essere dilatato, sviscerato in uno spazio più ampio.

Sulla narrazione

Wes Anderson, invece, allo sguardo pigro del produttore medio di Serie TV, preferisce la visione cieca di un mago prestigiatore, come a dirci che il cinema ha bisogno di saper stupire di nuovo, a suo modo, nei suoi tempi e nei suoi spazi. E se serve anche pochi e stretti. Questo materiale viene quindi sfruttato nella sua interezza senza snaturarlo, mettendo così il racconto di storie che si intrecciano alla vecchia e nostalgica maniera che, pare, abbiamo dimenticato. Sembra di vedere Italo Calvino che vuole scrivere un romanzo composto essenzialmente da prologhi di storie diverse. Come a cercare qualcosa di nuovo da raccontare, partendo dalla materia stessa di cui sono fatti i racconti: inaspettate e semplici sensazioni.


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Studente alla Statale di Milano ma cresciuto e formato a Lecco. Il suo luogo preferito è il Monte Resegone anche se non ci è mai andato. Ama i luoghi freddi e odia quelli caldi, ama però le persone calde e odia quelle fredde. Ripete almeno due volte al giorno "questo *inserire film* è la morte del cinema". Studia comunicazione ma in fondo sa che era meglio ingegneria.

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