Joseph è un uomo rassegnato allo scorrere del tempo, rintanato nel passato e nell’assopita nostalgia di una bellezza sfiorita dagli anni. Bellezza che cerca insistentemente di rivitalizzare, restaurando pezzi d’arredamento e cristallizzando il presente nella morsa rassicurante della fisicità della memoria. Quando una chiamata gli notifica la tragica notizia della morte del figlio, La Petite lo instrada, mite e composto, verso un tardivo viaggio di formazione.
Il film di Guillaume Nicloux sfiora con garbo i temi complessi del lutto e della maternità surrogata, astenendosi dai moralismi e snellendo con grazia gli eccessi. La Petite è un piccolo e raccolto dramma familiare, orientato su pericolose rampe drammaturgiche ma contemplato sempre a debita distanza, con l’unico interesse di ricamare, a dosi misurate, l’ampio spettro delle sfumature del sentimento. A pennellarne i contrasti, muovendosi pratico tra le tonalità del suo repertorio interpretativo, è un impeccabile Fabrice Luchini. Volto, fisicità e spazialità dell’attore accarezzano l’ispirazione trasognata di un’umanità che accoglie il desiderio di rimparare finalmente a vivere.
Fabrice Luchini e Mara Taquin, scambi generazionali di malinconia e comicità
Joseph (Fabrice Luchini) ha 68 anni, è nel suo studio a restaurare mobili quando il telefono squilla disatteso nell’ambiente accogliente di una casa che suggerisce solitudine. Emmanuel, il figlio con cui ha interrotto i rapporti da più di un anno, è morto insieme al compagno in un incidente aereo. Scopriamo che il nucleo familiare si era già sfaldato da tempo, frastagliato dall’incapacità di condividere il lutto della madre e annidato tra i non detti e i rancori di un padre e due figli disabituati all’introspezione emotiva.
Quando al funerale gli viene chiesto di dire qualche parola, Joseph abbandona la funzione per visitare la lapide della moglie e riservare all’intimità di un rapporto perduto flebili cenni di sincerità. Scostante e sdoppiato dalla natura del proprio lavoro – la cura di cose passate – il protagonista de La Petite è da subito contrito in un tempo fermo, poco incline alla distensione verso tangibili reciprocità.
Con i consuoceri le problematiche non sono meno infelici, tra loro la tensione è ritagliata da opposti sistemi valoriali e legittime elaborazioni delle perdite. I primi ricercano furiosamente giustizia, impegnati in una causa contro la compagnia aerea dell’incidente. Joseph, invece, è assillato da un altro tipo di preoccupazione: cosa ne sarà della figlia che i due ragazzi erano in procinto di avere? La madre surrogata si trova in Belgio, ed è lì che la storia lo trascinerà.
L’accordo della coppia con la ragazza era siglato da un’ingente somma di denaro in nero, perché in Belgio, ci viene spiegato, la pratica è ammessa a condizione della sua gratuità. Ma quei soldi l’uomo non li ha, Rita (Mara Taquin) li pretende e in ballo tra le rispettive caparbietà rimane la sorte adottiva di una nipote assunta a speranza di pacificazione con quanto perso. Nell’andirivieni tra Gand e Bordeaux, La Petite modella la narrazione sulle meccaniche del rapporto da instaurare con la giovane donna. Rita ha già una figlia, ostinata come la madre e tenera emanazione di uno spirito affettivo che piano piano trova risveglio nel cuore di Joseph.
Attriti, divari generazionali e una piacevole serie di equivoci animano le interpretazioni di Mara Taquin e Fabrice Luchini, bravissimi nel tenere insieme malinconia e naturale comicità. La cifra stilistica de La Petite incornicia l’avventura interiore del protagonista nel progressivo sfociare del presente, sillabato dalla ricorsività allegorica di due sequenze (ambientate in spiaggia) dalla contrapposta intonazione emotiva. Bagnato dal rimorso, il ricordo del figlio si sostituisce alla vitalità incontenibile di Rita, la sua bambina e la creatura che porta in grembo, derivazioni di un’idea di cura che dagli oggetti passa, infine, alle persone, dirottate verso un futuro che ritrova la volontà di essere vissuto.
La Petite, scegliere la semplicità
Il duello de La Petite si disputa fra accese contraddizioni e spigolose questioni morali. Ma Nicloux resta sempre a galla sul crinale della semplicità, prediligendo una linearità di racconto che si serve di temi scottanti e ne sacrifica le ruvidità. Le implicazioni della maternità surrogata funzionano solo da impulsi al cambiamento del protagonista, sommariamente dimenticate da un’intenzione esplorativa che preferisce dirigersi altrove.
Al netto di schematismi espressivi e semplicismi drammaturgici, la narrazione lateralizza le complessità ed esalta la purezza di un sentimentalismo mai troppo infiammato e mai veramente insistito. Così trova congiunzione nelle insenature di un taglio registico che sceglie di assistere, unicamente, al dolceamaro percorso di elaborazione del lutto.
Delicato, prevedibile e confortevole. La Petite decide consapevolmente di non andare oltre, assumendosi le responsabilità di una storia educata e pacatamente accennata, sbirciata in lontananza dall’arte di chi sa rendersi gradevole anche quando rifiuta con fermezza ulteriori profondità, congedandosi a mani pulite.
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