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La quattordicesima domenica del tempo ordinario

La quattordicesima domenica del tempo ordinario, il dimenticatoio nostalgico di Pupi Avati

6 minuti di lettura

La quattordicesima domenica del tempo ordinario. Titolo lungo fa buon brodo, ma non sempre un buon film. Di certo, però, c’è che è una gioia per gli occhi del suo regista: Pupi Avati, ormai ottantaquattrenne, ma con un ritmo produttivo di circa un film all’anno (prima di questo, il suo Dante, che ha fatto molto scalpore), è uno di quei registi che ormai viene chiamato Maestro tra i più, un classico saggio mestierante che nella vita ha visto di tutto, dalla collaborazione con Pasolini a quella ambita con Fellini.

Ma proprio per questo ci piange il cuore vedere Avati ridotto così, a fare film con una Bologna in green screen e con attori che credono a quello che stanno facendo solo per metà. Con Dante, almeno, la creatività c’era, in La quattordicesima domenica del tempo ordinario, invece, al cinema dal 4 maggio, poco si vede, tutto si spiega (per la logica del “non lo famo ma lo dimo”) e niente si realizza.

La trama de La quattordicesima domenica del tempo ordinario

La quattordicesima domenica del tempo ordinario pupi avati

Due ragazzi bolognesi dalla sfrenata passione per la musica mettono su un duo alla Simon & Garfunkel con il sogno di conquistare il Festival di Sanremo. Uno dei due, Marzio, interpretato da Gabriele Lavia e nella versione giovane da Lodo Guenzi, si innamora perdutamente di Sandra (la rediviva Edwige Fenech, da giovane invece Camilla Ciraolo) e così decidono di sposarsi. La convivenza è tuttavia da subito impossibile: Marzio è un alcolizzato depresso, stressato dai continui insuccessi della sua carriera, inoltre è estremamente geloso nei confronti di Sandra, che segue dappertutto con maniacale stalking.

In una narrazione (classica) fatta di flashback e dimensioni oniriche, La quattordicesima domenica del tempo ordinario sfida il tempo: da una parte il saltello continuo tra ieri e oggi, e dall’altra la volontà di Pupi Avati di ripercorrere una vita intera (forse la propria?), tra alti e bassi; tra chioschi dei gelati, luogo dove, e qui si cita, «i sogni diventano realtà» , e bar di periferia poco frequentati. Tutti i luoghi possibili e immaginabili, tranne il cinema insomma.

Annamo a pijà er gelato?

La quattordicesima domenica del tempo ordinario pupi avati

Nel frastagliato e variopinto metacinema degli ultimi anni, Pupi Avati fa un film sui luoghi che ama di più inserendo a malapena la sala: scelta di stile? Di assenza che si trasforma in presenza metafisica, onnisciente? No, non pare. Piuttosto è per necessità: il cinema per Pupi Avati non è un luogo principe, perché non lo è mai stato. Non tanto il vedere, perdersi tra ricordi offuscati di luoghi che furono, bensì il racconto didascalico (scritto da Avati) di un artista fallito; il che aggiunge alla banalità de La quattordicesima domenica del tempo ordinario un sottofondo abbozzato di una Bologna vuota e svuotata.

Non è un caso se il chiosco dei gelati, tanto decantato, che nel film introduce e conclude la trama, non si vede mai. Pupi Avati si arrende alla propria memoria e preferisce saltare quella parte, andare piuttosto avanti raccontando fatti.

La quattordicesima domenica del tempo ordinario, provaci ancora Pupi

La quattordicesima domenica del tempo ordinario

Ma cosa rimane, dunque, del cinema? Sicuramente Edwige Fenech, icona del cinema italiano e a suo tempo sex symbol, che Pupi Avati tira fuori dal calderone della sua gioventù per cucirle addosso il ruolo di Sandra, donna dal matrimonio fallito, indossatrice di bellezza ma abusata nello spirito. In queste vesti la si riconosce appena, ma tanto basta alla vecchia guardia per far rinascere gli antichi splendori (basta vedere l’intervista con Avati e la Fenech a Che Tempo Che Fa).

A noi che siamo giovani, possiamo dire solo che il personaggio di Sandra sembra avere un unico scopo, ovvero quello di resa dei conti per il protagonista Marzio, con un passato mai chiuso, che ora si può affrontare; e di un appiglio sicuro a un sogno segreto del ragazzo Pupi Avati. Un’ossessione che funziona anche come sfogo catartico.

Del resto, però, e sorvolando sulla scadente qualità tecnica, La quattordicesima domenica del tempo ordinario non è che un vuoto enorme impregnato di suggestioni, influenze, citazioni, scene amputate e altre dilungate con acqua distillata. Un film insapore che vuole essere nostalgico e romantico. Dimenticatevi Amarcord, più che celebrazione della vita qui siamo alla commemorazione di un passato che palesa tutta la sua falsità e la sua inesistenza. E non c’è niente di più anti-cinematografico di questo.


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Studente alla Statale di Milano ma cresciuto e formato a Lecco. Il suo luogo preferito è il Monte Resegone anche se non ci è mai andato. Ama i luoghi freddi e odia quelli caldi, ama però le persone calde e odia quelle fredde. Ripete almeno due volte al giorno "questo *inserire film* è la morte del cinema". Studia comunicazione ma in fondo sa che era meglio ingegneria.

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