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La rabbia giovane

La rabbia giovane, l’esordio folgorante di Malick

L'esordio di Malick colpisce ancora

6 minuti di lettura

Il nostro primo sondaggio post-quarantena segna la vittoria di Badlands, dal titolo italiano La rabbia giovane. Il film, uscito nel 1973, rappresenta l’esordio alla regia dell’allora trentenne Terrence Malick. Laureato in filosofia ad Harvard, dopo aver mosso i primi passi da giornalista free lance, realizza le prime sceneggiature nei primi anni del decennio ’70, in piena New Hollywood.

Non si deve tuttavia pensare che questa opera prima, senza una grossa casa di distribuzione alle spalle, lo inserisca di default nei canoni del cinema americano. In un certo senso, egli non solo smantella la narrativa classica della Golden Age hollywoodiana, ma anche quella coeva della New Hollywood. Sorvola il cinema, come era stato fino ad allora inteso, per collocarsi in una dimensione isolata, riservata, lontana e trascendentale. Anche il post-moderno sembra qui già presente e superato.

Ma senza turbinare sulle questioni teoriche, diventa invece interessante seguire l’itinerario di questo viaggio per le Badlands. E che ne sarà de La rabbia giovane.

La rabbia giovane trama

1959, Fort Dupree, Sud Dakota. Kit (Martin Sheen), giovane spazzino vagabondo senza futuro, si innamora della quindicenne Holly (Sissy Spacek), a sua volta ricambiato. Quando il padre di lei (Warren Oates) scopre e ostacola la loro relazione, Kit lo uccide e, insieme alla ragazza, scappano verso il Montana. La fuga passa attraverso territori selvaggi e abbandonati.

Ma la coppia è inseguita dalla polizia. Kit uccide chiunque risulti una minaccia o un intoppo al proprio cammino, mentre Holly osserva con indifferenza. Con passo non sempre sicuro, i due giovani arrivano al confine con il Canada, mentre la polizia si avvicina sempre di più.

La rabbia giovane: un giusto titolo?

La differenza tra il titolo originale e quello italiano è notevole. Solitamente la semantica del titolo tradotto dovrebbe cogliere i nodi principali della trama, o del suo senso. In questo caso, però, il sintagma risente del ’68, indirizzando il senso del film sul sentimento della rabbia giovanile. Per chiunque guardi il film in maniera lucida e attenta, è possibile osservare che mai scelta fu più erronea.

Non esiste rabbia o furore nei gesti compiuti da Kit, interpretato da Martin Sheen, che segue nelle scene le movenze di James Dean. Esiste un determinismo socio-biologico, che muove i personaggi come marionette. La morte del padre di Holly? Più che normale, per una generazione ormai abituata a rinnegare le proprie tradizioni, e le tradizioni, impersonate dai padri, ormai stanche di assolvere al proprio ruolo. Ma il gesto non porta un valore di rivolta, di costruzione. Un atto gratuito che lascia i due protagonisti nel mezzo di una società svuotata da fedi e morali, incapace di crearne di nuove altrettanto valide o salde. Una società dimentica dei propri giovani, lasciati nel mezzo di strade vuote e polverose della provincia, a fingere di essere cittadini.

Una visione pessimista e cupa, per il regista esistenzialista Terrence Malick (noto è il suo forte interesse, se non interiorizzazione, per la filosofia di Martin Heidegger). La fuga dalla polizia non diventa mai ribellione verso la società e le sue istituzioni. Anzi, la polizia, nel suo dovere, risulta a Kit più stimabile delle azioni individuali meschine e ipocrite dei propri concittadini. Non c’è rivolta, non c’è rabbia, c’è solo una grande apatia e indifferenza verso una vita che segue un corso ignoto, ma già deciso dalle oscure forze ancestrali.

Badlands le autentiche protagoniste

L’autentico significato e obiettivo registico, sta nel titolo originale. Svuotare la visione di una natura buona e diletta, tanto cara agli autori ottocenteschi americani (Emerson, Whitman e Thoreau su tutti) e alle filosofie edonistiche sessantottine. Il mondo naturale e selvaggio diventa un rimosso psichico. Un mondo biologico e vegetale, non coltivato, non industrializzato, che caratterizza il percorso incerto di Holly e Kit. I quali sono completamenti disfunzionali, inadatti, distanti da quell’antico idillio tra uomo e natura che segnava – forse – le società primitive o pre-civilizzate.

Le grandi montagne canadesi all’orizzonte, le enormi distese di grano segnate dal vento, i tralicci che corrono a chilometri, rifornimenti di benzina abbandonati. Tutti questi sono paesaggi svuotati di ogni senso antropocentrico. Qui si svela il gioco del regista: la provincia non è più un paradiso perduto, la vegetazione non è quel rigoglio lussureggiante che invita al piacere. Rimane qualche tramonto, oggetti di viaggio abbandonati qua e là in mezzo alle cattive terre e l’andare sempre avanti, per un dove che non esiste più.

Per Malick ci sarà tempo, nei suoi film successivi di molte decine d’anni, di recuperare l’indagine trascendentale, esistenzialista, sulla natura e il tempo, trovando una soluzione nuova e diversa per il legame con l’umano. Ma, alla fine del 1973, alla fine del film, l’amaro senso di distanza e insignificanza della «Madre Terra» è l’unica realtà, e della Rabbia giovane non rimane che l’esoscheletro, senza vita interna.


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Amo le storie. Che siano una partita di calcio, un romanzo, un film o la biografia di qualcuno. Mi piace seguire il lento dispiegarsi di una trama, che sia imprevedibile; le memorie di una vita, o di un giorno. Preferisco il passato al presente, il bianco e nero al colore, ma non disdegno il Technicolor. Bulimico di generi cinematografici, purché pongano domande e dubbi nello spettatore.

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