I titoli di testa de La stanza delle meraviglie, il nuovo film di Lisa Azuelos, si aprono su un quaderno di scuola illustrato dove alcuni schizzi sembrano già storyboardare la narrazione. Il significato si capirà lungo il cammino ma il coinvolgimento emotivo, su quel cammino, non lo si troverà facilmente.
La stanza delle meraviglie, al cinema dal 13 luglio, manifesta immediatamente i simbolismi su cui tornerà, con ricorsività, nel corso di una maratona che vorrebbe raccontare un ritorno alla vita, salvo poi perdersi nella negazione dei suoi stessi principi di realtà. Perché in questo viaggio di coraggio e resilienza materna, disperato nel tentativo di salvare il proprio figlio, ogni zona d’ombra sembra aver bisogno di essere cauterizzata: e allora, cosa resta? Una lista di desideri da esaudire e un mondo di cui ancora scoprirsi meravigliati, forse.
La stanza delle meraviglie, una storia di emancipazione
Resta sicuramente un racconto semplice, patinato ma narcotizzato di emotività. Thelma (Alexandra Lamy) è una madre single, supereroina del quotidiano barcamenarsi tra lavoro, cura del figlio, lezioni di inglese e nessuna prospettiva individuale. Louis (Hugo Questel) ha dodici anni, molte passioni e uno sguardo coscienzioso su una realtà di cui cerca, fin da subito, di farsi mediatore comunicativo con la mamma. I due sono legati, prioritari l’uno per l’altra, soli contro il mondo. Fino a un momento accidentale di fatale distrazione: a Louis l’incidente con lo skate costerà il coma farmacologico, a Thelma l’esasperazione di una donna disposta a tutto pur di salvare il proprio figlio. E se stessa.
Il passare dei mesi lambisce La stanza delle meraviglie a partire da quel quaderno che a poco a poco comincerà ad assumere senso, traducendo in avventura ogni punto della lista dei desideri del ragazzino, ritrovata casualmente dalla madre. Da esaudirsi rigorosamente prima della fine del mondo e nella fiducia miracolosa del suo risveglio. Di qui Thelma ripartirà, finalizzando ciascun sogno al posto del figlio e affrancandosi da se stessa in un viaggio di formazione che sconfinerà dal Giappone al Portogallo, dai manga ai murales, dallo skate al recupero del proprio passato. Tutto e sempre in nome di quel DNA condiviso che consentirà ai due di restare idealmente connessi all’interno della loro comune stanza mentale delle meraviglie.
Davanti a Thelma si dispiega un mondo completamente nuovo, sconosciuto, neanche immaginato. Lisa Azuelos resta attaccata alla sua protagonista, trasponendo l’omonimo romanzo di Julien Sandrel nella fotografia di un diverso risveglio, da un’altra tipologia di coma: la quotidianità della donna.
La stanza delle meraviglie è una storia di emancipazione e indipendenza di una madre che ha sacrificato identità e desideri in nome di un’esistenza non vissuta, subita senza coraggio e sotto giudizio. Di se stessa, degli altri, delle aspettative sociali, personali e relazionali. Saranno i ruoli parentali ad invertirsi all’interno di una macchina narrativa in cui il figlio insegnerà, inconsapevolmente, un’importante lezione alla mamma, aiutandola nel percorso di riscoperta di sé e di una genuinità rimasta a lungo sopita.
I miracoli si fanno insieme, ma La stanza delle meraviglie preferisce far da sé
Se la premessa de La stanza delle meraviglie può essere al massimo tacciata di facile sentimentalismo, la sua esecuzione formale svaluta irreversibilmente la portata di un racconto già di per sé un po’ adulatore. Quello di Lisa Azuelos è un fluviale pedinamento alla speranza e a quel tipo di ostentato ottimismo che trasfigura il dramma in ritualità estetizzata, carica di simbolismi ma sterile di empatia.
Dentro La stanza delle meraviglie, ogni tappa del viaggio della donna verso il ritrovamento di sé stessa è dettato da un cieco annullamento dell’altro, dalla feroce volontà di portare a termine i propri obiettivi, enunciata discorsivamente attraverso l’invalidazione dei conflitti. Thelma la spunta sempre, adulata e quasi senza sforzo, estraniando lo spettatore da una storia che sceglie di galleggiare sulla superficie del sensazionalismo e indebolendo l’ossatura – promettente – del racconto on the road. Nessun vacillamento, soltanto un’onnipresente patina narrativa che nulla può di fronte al travestimento dell’esistenza in sua fatiscente rappresentazione.
In un abuso sovraccarico di ralenti, patetismo sonoro, sequenze oniriche e surrealismi metaforici, quel che una simile deriva linguistica è in grado di evocare è solo un complessivo senso di distacco. La disperazione, il dolore e la trasformazione della donna sembrano non riuscire a scalfire la parete che s’interpone a chi guarda, spiralizzando un film che vorrebbe commuovere, far riflettere e sensibilizzare, in un’ora e mezza di cliché che non riescono mai a raggiungere l’incisività auspicata.
Le direzioni possibili sarebbero potute essere tante, ma la Azuelos decide di non prenderne nessuna, vagheggiando alternative ma tenendosi ben saldo il suo abito da melodramma. A conti fatti, in quest’assenza di zone d’ombra è impossibile enucleare immedesimazione. E quindi ciò che resta, davvero, in mano allo spettatore è un’unica non-scelta: subire la narrazione, imparando come difendersi dall’esperienza della sua stessa protagonista.
La stanza delle meraviglie si chiude su un tripudio di suggestioni lacrimevoli, estirpato di consistenza e inzuppato di manierismo, nonostante un finale aperto e finalmente un po’ graffiante. Ma arriva troppo tardi, quando ormai i suoi compagni di avventura si sono già persi per strada.
«I miracoli si fanno insieme», sentenzia Thelma in chiusura del film. Peccato che questa volta, il miracolo, ci abbia tenuti a debita distanza.
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