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La zona d'interesse

La zona d’interesse, l’orrore invisibile del male radicale

8 minuti di lettura

Piazza Venticinque Aprile, Milano. Lo storico multisala Anteo ci ha accolto per l’anteprima de La zona d’interesse, ultimo film di Jonathan Glazer, distribuito negli Stati Uniti da A24 e prossimo alle sale italiane, dal 22 febbraio, sotto l’ala di I Wonder Pictures. Un titolo che ha già catalizzato l’attenzione dei cinefili con la vittoria di un Gran Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes e cinque candidature agli imminenti Oscar. Tra queste, quella come Miglior Film Internazionale, in cui l’opera di Glazer concorre per la Gran Bretagna contro il nostrano Io Capitano di Matteo Garrone.

E la sfida si preannuncia impervia data la sottigliezza estetica e narrativa con cui Glazer, regista e sceneggiatore, racconta l’orrore nel quotidiano. A pochi giorni dalla Giornata della Memoria, ricorsa il 27 gennaio, La zona d’interesse offre allo spettatore un ritratto di disturbante eleganza della routine carnefice di una famiglia nazista borghese. Loro sono gli Höß, capitanati da Rudolf Franz Ferdinand (Christian Friedel), personaggio storico realmente esistito come primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz e impiccato, in quello stesso campo, nel 1947.

Al suo fianco, una magnifica Sandra Hüller (candidata agli Oscar come miglior attrice per Anatomia di una caduta) interpreta la glaciale Hedwig. Anche lei, come Rudolf, ha normalizzato il male assoluto nella banalità di una vita agiata proprio dall’altro lato delle mura di Auschwitz. Questa è la zona d’interesse raccontata da Glazer in un’opera performativa, concettuale e devota figlia di un sound design dal ruolo decisivo.

Al di là del muro

La zona d'interesse

Non a caso La zona di interesse si apre con un preludio musicale di alcuni minuti su sfondo nero atto a introdurre lo spettatore in un sottobosco agghiacciante. La prima scena che appare sullo schermo, però, definisce subito un contrasto. Quello che vediamo è infatti il ritratto bucolico di una famiglia sul prato a bordo di un fiume, quasi a richiamare il dipinto La colazione sull’erba di Manet.

Lo spirito è gioioso e la quotidianità che segue normalizza l’abitudinario compiersi delle azioni. Tuttavia, proprio lì si annidano demoni stridenti. Ne La zona d’interesse, sono i piccoli dettagli, infatti, a connotare la violenza insita nel focolaio domestico della famiglia Höß dove la pelliccia che indossa Hedwig è stata crudelmente sottratta a una prigioniera; dove gli stivali insanguinati di Rudolf sono simbolo di abusi e maltrattamenti perpetrati; dove tra le mura dell’idilliaca villetta si parla di camere a gas.

Fuori c’è il muro, che demarca due entità di luogo dove il visibile e l’invisibile condividono lo stesso cielo: la notte senza stelle di Auschwitz, nella quale il fumo delle ciminiere appesantisce l’aria, mentre Rudolf fuma un sigaro a bordo della sua piscina. È tutto normale. Finché l’arrivo della madre di Hedwig, in visita alla figlia, segna un punto di rottura. Lei vede quella cenere che piove nel giardino e se ne spaventa. Ma la sua è una presenza di passaggio, che scalfisce, ma non distrugge l’apatia amorale degli Höß.

La zona d’interesse mette in scena la banalità del male

La zona d'interesse

Correva il 1964 quando la giornalista, scrittrice e filosofa tedesca Hannah Arendt dava alle stampe la sua opera letteraria più famosa: La banalità del male. Una riflessione atta a sottolineare come i nazisti fossero persone all’apparenza normali, mediocri, banali, talmente integrate in un meccanismo di morte da non discernere più il bene dal male con spirito critico. Il loro modo di vivere era passivo, le azioni meccaniche, la coscienza azzerata.

Allo stesso modo ci appaiono gli Höß, freddi, crudeli, apatici, tanto da parlare delle vacanze in centri benessere italiani mentre là fuori, oltre il muro, si consuma il genocidio. Per loro, la serializzazione della violenza si è tradotta in routine e si crogiolano nel benessere conquistato con una pacatezza disumana. Così il concetto di banalità del male traduce con forza il messaggio veicolato da La zona di interesse, che si chiude con una sequenza emblematica.

Qui vediamo, ai giorni nostri, le donne delle pulizie di Auschwitz, ora sito culturale e di memoria, spazzare le stanze in cui sono stati uccisi migliaia di prigionieri e pulire le vetrine degli spazi espositivi in cui sono raccolte le scarpe delle vittime. Il tempo passa, l’umanità si fa carnefice e testimone di nuove violenze e il male rimane insito e nascosto nell’apparente banalità dell’agire quotidiano. Così La zona di interesse riflette con coscienza sul male radicale, sugli agenti passivi di un sistema privo di pensiero, raccontando due luoghi, il visibile dei carnefici e l’invisibile delle vittime.

Un film diviso su due tracce

La zona d'interesse

La zona d’interesse è un film invisibile. Lo afferma lo stesso regista, che traduce l’essenza della sua opera su due livelli, due tracce: “Una è il film che senti, una è il film che vedi”. Così la pellicola diventa un’esperienza plurisensoriale, che traduce il dictat cinematografico Show, don’t tell in una performance di inquietudine percettiva. Quello che non si vede, si avverte e si prevede con terrore sotto il primo strato drammaturgico. Con La zona di interesse, Glazer si affida dunque alla conoscenza e alla coscienza storica dello spettatore, per muoversi impercettibilmente tra i due livelli.

Il risultato è un film che rinuncia alla spettacolarizzazione visiva e sceglie di agire nel substrato emotivo. In tal senso, la musica è un fattore di significato decisivo, con una ramificazione stilistica che muove dalle delicate sinfonie della compositrice Mica Levi ai suoni gutturali delle sequenze in negativo in cui una giovane ragazza polacca aiuta i prigionieri di Auschwitz. Nella notte, la giovane nasconde delle mele tra gli attrezzi di lavoro degli internati: un piccolo gesto che vale un immenso sacrificio. La zona d’interesse intervalla così momenti quotidiani, sequenze oniriche e campiture monocromatiche in un film che incede, poi si ferma, poi prosegue. Un viaggio che ferisce, agghiaccia e colpisce, ma soprattutto, rimane.


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Classe 1996, laureata in Comunicazione e con un Master in Arti del Racconto.
Tra la passione per le serie tv e l'idolatria per Tarantino, mi lascio ispirare dalle storie.
Sogno di poterle scrivere o editare, ma nel frattempo rimango con i piedi a terra, sui miei immancabili tacchi.

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