Una delle tante sorprese che le nomination per gli Oscar 2018 ci avevano riservato fu sicuramente Lady Bird, un film di formazione forse più debole e meno temerario degli altri concorrenti in competizione per la statuetta più ambita, ma che ha saputo ritagliarsi con coraggio uno spazio importante nell’Academy e oltre.
Un “coming of age” capitanato da due donne fuori dagli schemi che con la loro brillantezza hanno saputo conquistare il cinema americano.
Rivediamolo a qualche anno di distanza cercando i frutti di un film che dalla nicchia d’autore seppe arrivare anche al grande pubblico.
Lady Bird e Greta Gerwig
Prima è stata la goffa Frances Hallday di Frances Ha (2012) e poi la disinvolta e affascinante Brooke Cardinas di Mistress America (2015), ma attenzione a non considerare Greta Gerwig solo la semplice musa dello stravagante estro di Noah Baumbach, suo compagno nella vita e nel lavoro, autore di entrambe le pellicole che l’hanno consacrata icona del cinema indipendente, detto anche “indie”, americano.
Ora la bionda californiana è cresciuta, ha deciso di fare da sé, ha preso in mano le redini della scena cinematografica come troppo poco spesso le donne osano fare, raccontando semplicemente una storia: la sua.
Greta Gerwig condivide infatti i natali con la sua protagonista Christine, pardon, Lady Bird, “un nome che mi sono data da sola”, e proietta nell’insofferenza e nell’atteggiamento scostante della giovanissima eroina i sintomi di un’adolescenza soffocante fatta di scuole cattoliche, litigi tra amiche, madri che amano troppo, problemi economici, e l’inevitabile ed impacciata scoperta dell’altro sesso.
In un momento dove l’onda della (oseremmo dire giusta) rivincita del femminismo non fa sconti a nessuno e miete le sue vittime a colpi di marce dai cappellini rosa shocking, abiti tutti neri o tutti bianchi e hashtag dirompenti, la significativa e fortemente voluta nomination di Greta Gerwig come migliore regista, la quinta donna nella storia degli Academy, arriva al momento giusto, nominandola paladina di una rivincita tutta al femminile, dalle tinte rosa pastello, il colore non a caso più amato dal mondo della moda quest’anno.
Lady Bird, un indie al femminile
Dall’altra parte della cinepresa, ritroviamo Saoirse Ronan, un look anticonvenzionale che avevamo già imparato ad amare in Brooklyn (2015): origini irlandesi, un nome impronunciabile, occhi azzurri, pelle diafana e un look androgino che la rendono un interessante elemento dell’attuale panorama cinematografico.
Quasi vicina al sentire del coetaneo Elio di Chiamami con il tuo nome – lo stesso Chalamet è uno dei personaggi principali anche in questa pellicola – altro film in gara per le statuette più ambite, Christine, il brutto anatroccolo di Lady Bird, rappresenta, come dichiara la stessa Gerwig, una realizzazione personale anche più sfaccettata rispetto a quella dei colleghi maschi, dove attraverso lo scontro con gli altri (soprattutto con le altre) e il confronto con alcuni opprimenti tabù sessuali si vuole dimostrare che non è vero che le ragazze nascono già donne.
Da un certo punto di vista, è facile etichettare Lady Bird come la classica teen comedy di formazione condita da una buona dose di volontà di indipendenza, ribellione e rocambolesche (dis)avventure più o meno romantiche, ma questa sua candidatura tra i pezzi forti del “cinema che conta” sembra anche dire che la pellicola in questione rappresenta qualcosa di più.
Forse Lady Bird è la condivisibile necessità di un cinema fatto dalle donne con le donne, che non ha nessuna pretesa di imporsi sugli altri, ma che rappresenta una piccola e significativa vittoria per un neonato cinema indie al femminile che, presentandosi in tutta la sua semplicità, ha dimostrato di potersela giocare alla pari con tutti raccontando con estrema grazia una storia quotidiana e lineare, a tratti fin troppo prevedibile, quasi una pagina di diario in cui tutti riconosciamo qualcosa di noi.
L’emancipazione e il distacco in Lady Bird
In questa battaglia che oppone uomini e donne, cinema indipendente e mega produzioni, è impossibile non notare il tema del problematico distacco dalla casa e della città in cui si è sempre cresciuti. La volontà di emanciparsi dalla propria famiglia e della tanto odiata cittadina di Sacramento è l’ossessione di Lady Bird, è motore dell’intero film che la spinge a trovare qualsiasi mezzo per lasciare una realtà chiusa e bacchettona che le è sempre stata troppo stretta. Il cambio del nome, anzi, il darsi da sola un proprio nome è una chiara manifestazione di indipendenza che non riconosce come proprie le radici a cui si trova ancorata.
In un sottile gioco che oppone Sacramento al mondo “oltre Sacramento” – definito “un mondo dove c’è cultura” – Lady Bird punta i piedi con insistenza, riuscendo con costanza e qualche scivolone a realizzare il suo sogno. Quando anche l’ultimo dei tabù che la separavano dalla tanto agognata età adulta cadrà, il richiamo delle proprio origini, in cui è incluso anche un particolare rapporto con la fede, risulta più vivo che mai. Ormai la nostra giovane protagonista non ha più bisogno di ricercare il diverso a Sacramento, ma, al contrario, ricerca Sacramento nel diverso, togliendo finalmente la maschera della ribelle Lady Bird e facendosi chiamare Christine, “perché è questo il nome che i miei genitori mi hanno dato”.
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