A settant’anni dalla sua nascita, Mario Martone omaggia l’iconica figura di Massimo Troisi con Laggiù qualcuno mi ama, un documentario prodotto da Indiana Production, Vision Distribution e Medusa Film, in uscita nella sale dal 23 febbraio. Presentato in anteprima al 73° Festival del Cinema di Berlino, il documentario del poliedrico regista partenopeo è un’ode colta al grande attore scomparso il 4 giugno 1994, all’età di soli 41 anni.
Laggiù qualcuno mi ama, non solo una “maschera”
I primi venti minuti di Laggiù qualcuno mi ama sono già esemplificativi: c’è prima una rassegna dei principali fatti storici accaduti in Italia a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, poi la voce fuori campo di Martone che delinea un parallelismo con Antoine Doinel, il personaggio interpretato da Jean-Pierre Leaud nei film di Francois Truffaut. Avvicinare il protagonista de I 400 colpi al soggetto del documentario non è affatto un azzardo; entrambi, secondo le parole del regista, incarnano marcatamente “la forma di esistenzialismo più affettuosa“, ovvero “una fragilità” che, se Leaud scolpisce film dopo film senza mai abbandonare i panni di Doinel, Troisi invece costruisce in modo più problematico, calandosi sempre in personaggi diversi.
È partendo da questa problematicità che Martone edifica la sua opera. Un documentario raffinato e filologico che intende svelare i meriti di un uomo che non è stato solo maschera, incarnazione “spettacolare” di una napoletanità tanto malinconica quanto esilarante, ma anche attore e regista capace di dialogare con i suoi tempi. Come racconta lo stesso Troisi in un’intervista sapientemente inserita nel documentario, egli, un po’ per indolenza, non ha mai avuto il piglio polemico o l’irruenza di Pasolini; eppure, se si considerano soltanto i primi cinque minuti di Ricomincio da tre, il suo esordio cinematografico, si riconosce subito la presenza di determinate riflessioni.
Per dimostrare ciò, Martone disseziona una scena specifica del film: Gaetano, chiamato a gran voce dal suo amico Raffaele, esce da un palazzo danneggiato da un terremoto (quello che nel novembre del 1980 che sconvolse l’Irpinia e il napoletano); l’amico vuole che il protagonista si distragga, ma Gaetano vuole riposare perché ha deciso di partire l’indomani per Firenze. Il suo desiderio è cambiare vita una volta per tutte, uscendo così dal grigiore rovinoso che sembra riservargli Napoli, di cui il palazzo pericolante è emblematico correlativo oggettivo. Ecco: questo è solo il primo – e forse il più incisivo – dialogo tra cinema e realtà che è possibile rintracciare in Laggiù qualcuno mi ama.
Un artista sommerso dalla contemporaneità
La linea che Martone segue è chiara: avvalendosi di un gran numero di interviste, filmati e materiale inedito, egli dimostra – si potrebbe dire, in modo inconfutabile – che Troisi è stato innanzitutto un grande cineasta, e che le sue opere sono state capaci di definire un’intera epoca, nonché di influenzare un gran numero di attori e registi. Una delle testimonianze più preziose, forse, è quella di Paolo Sorrentino, che ammette di essersi più volte ispirato a Troisi e di invidiargli ancora il modo magistrale di concludere i film: quel ricorso pericoloso e assai pregnante del fermo-immagine che, improvviso, illude lo spettatore di poter interrompere il fluire della vita.
Prima di questa brusca interruzione, però, tutto è scandito dal tema che più avvicina l’attore originario di San Giorgio a Cremano al filone della Nouvelle Vague: quell’amore intenso, sofferto e sempre irrisolto che tanto smuove ogni azione del protagonista, il cui unico desiderio sembra quello di risolversi in un’immobilità consolatoria, distante dal frastuono della vita e dalle fragilità sospinte dalla contemporaneità. Un’operazione oggettivamente impossibile di chi, pur tentando di fuggire dalle idiosincrasie della storia, ne accoglie fatti, cambiamenti e afflizioni. Da questa complicata dialettica scaturisce di conseguenza una produzione meritevole, che Laggiù qualcuno mi ama riesce a scandagliare con grande rigore, senza mai essere prolisso.
Il regista di Nostalgia analizza tutti i film diretti e interpretati da Troisi non trascurando altri temi fondamentali, come la presenza spesso fantasmatica di Napoli – città che l’artista ha sempre amato fino al midollo, ma da cui spesso egli si sentiva schiacciato – o il ricorso a personaggi femminili molto forti e indipendenti, quasi tutti scritti dalla torinese Anna Pavignano, storica sceneggiatrice di Troisi, nonché per qualche tempo sua compagna di vita. È anche grazie al suo prezioso “archivio sentimentale”, ricco di registrazioni e appunti personali di Massimo, che Martone riesce a restituire efficacemente l’anima più intima dell’artista, emozionando a più riprese lo spettatore.
Laggiù qualcuno mi ama, un documentario completo
È davvero difficile scovare difetti in Laggiù qualcuno mi ama. Risulta ineccepibile il montaggio curato da Jacopo Quadri, capace di alternare senza forzature testimonianze, filmati di repertorio e spezzoni indimenticabili dei film di Troisi, mentre la regia esperta di Martone trasuda sempre grande ammirazione per la poetica del suo soggetto. Sarebbe stato semplice – e magari anche comprensibile – ricadere in un ricordo eccessivamente accorato di Troisi, che trascurasse il gigante contributo dato da quest’ultimo sia nella costruzione di una nuova napoletanità, sul solco tracciato da Totò ed Eduardo De Filippo, sia nella storia del cinema tout-court.
Riprendendo implicitamente il manifesto – sottoscritto, guarda caso, da Francois Truffaut – sulla politica degli autori, Martone racconta con grazia la vita e la carriera di Troisi seguendo come unica bussola l’importanza cinematografica di un vero e proprio “attore anima”; appunto, un autore-attore che, creando un linguaggio universale subito riconoscibile, può essere considerato alla stregua delle più grandi stelle della settima arte. È sviscerando questo assunto molto ben argomentato che Laggiù qualcuno mi ama riesce dove hanno sempre fallito altri documentari su Troisi – basti pensare al recente Il mio amico Massimo di Alessandro Bencivenga: non è solo Napoli orfana di Troisi, ma tutto il cinema mondiale.
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