Alberto Lattuada conferma la sua vocazione “letteraria” predisponendo l’adattamento della Spartizione (1964) di Piero Chiara, beffarda satira sui vizi umani e il filisteismo piccolo-borghese. Fuggendo l’imperativo del filologicamente corretto – spesso disatteso con coerente ostinazione – il regista varia l’asse temporale (dal fascismo agli anni del post-boom) così da tematizzare un’endemica ipocrisia, un relativismo puntellato di manie e mediocrità.
La storia è di lana grezza, ai limiti del caricaturale, ma l’incontro con lo scrittore è di quelli felici, destinato a sedimentare nel corso degli anni. Lattuada stesso ne evoca le ragioni, illuminando una zona di inedita cooperazione, tanto più significativa se calata nel tempo, alla luce della querelle De Sica-Bassani:
Chiara ha il dono dello scrittore che non richiede uno sforzo di lettura. La facilità della parola è solo apparente, la piacevolezza del racconto è frutto di una osservazione minuziosa, tenace, affettuosa. Nel passo, nella battuta di un personaggio, scopriamo con grande compiacimento la commedia umana. È così che l’intrigo diventa romanzo coinvolgendoci del tutto, per gettare lo sguardo nel segreto di molte vite che non conoscevamo prima di incontrare le pagine dell’autore [1].
Alberto Lattuada e Piero Chiara, una proficua collaborazione
Da “ri-scrittore” di opere – nella convinzione che i libri siano miniere di immagini – il cineasta trova in Piero Chiara un deposito figurale, laddove ogni attore disvela il guasto delle costrizioni, le pulsioni segrete ridotte a vezzi da castrare. C’è, in quest’operazione di pescaggio, un duplice sguardo sbieco, giacché l’occhio dell’autore si compie, a ben vedere, nella prospettiva di Lattuada, concentrato a cogliere segni, tratti somatici che scoprono l’essere.
Se Chiara osserva il lago (è il Maggiore a far da sfondo ai suoi testi), il regista ri-colloca sullo spazio un campionario di tipi umani, già presenti – è vero – sulla pagina en entier, ma qui ripresi in dettaglio, sì da carpire i particolari che rimandano all’universale. Venga a prendere il caffè da noi è, in tal senso, una pellicola emblematica; ogni carattere ri-vive, acquista una sua specificità nel momento in cui è “sezionato”, quasi notomizzato dalla camera che lo indaga.
Ugo Tognazzi in Venga a prendere il caffè da noi
Prendiamo il protagonista, Emerenziano Paronzini, che nel romanzo di Chiara è pregno di velleità grette, ossessioni identitarie da provincia “per bene”. Sebbene già finito – predisposto al riuso – la sua natura acquista senso nel momento in cui si incontra “con la sanguigna volgarità padana di Ugo Tognazzi, con lo sguardo vacuo del grande attore cremonese affacciato sull’abisso della carne, sul mistero flagrante della donna” [2].
Si deve a Chiara la scelta dell’interprete, dopo l’indisponibilità di Mastroianni e il puntuale – acuto – sguardo sul personaggio, che dalla collaborazione sopra citata trae vigore e giovamento, ancor più rinsaldato dalla sintonia regista-attore. In Tognazzi si incarna la piccineria dell’uomo-medio: quando fa i gargarismi con il vino (idea dell’attore stesso), o si pulisce le unghie e i denti con lo stecchino, pare di averlo davanti, di scorgere in questi dettagli la polvere sotto il tappeto – il metodo dell’affabulazione che fa di mendacità virtù. Commentando tale esperienza, Tognazzi dichiarerà:
Nel film di Lattuada sono stato affascinato dalla possibilità di costruire un campione di mediocrità, una mediocrità che qui, per di più, è sublimata dal fatto che il personaggio è anche presuntuoso. Quest’uomo non conta niente, è meno che niente, ha solo un progetto mediocre, un comportamento mediocre; tuttavia crede che il suo comportamento sia quello di un personaggio importante. Questo tema mi piace molto[3].
Venga a prendere il caffè da noi come allegoria del malcostume
Il lavoro sui “tic”, sulle trovate oscene, oltre che esito dello scambio con il regista (“lui metteva una cosa, io ne mettevo un’altra”) fornisce una chiave d’accesso al microcosmo di provincia, all’humus “prebossiano” [4] che è allegoria di un certo ambiente. Venga a prendere il caffè da noi fotografa infatti una realtà dissimulata, in cui la doppiezza e la falsità regolano il vivere “civile”.
Emerenziano Paronzini, ragioniere di Luino e lettore del Mantegazza (la sua Fisiologia del piacere, ripassata in chiesa, è un colpo di genio) adocchia le sorelle Tettamanzi in virtù dell’eredità. Tersilia (Francesca Romana Coluzzi), Camilla (Milena Vukotic) e Fortunata (Angela Goodwin) sono orfane di un naturalista dedito a combinazioni vegetali, a mostruosi esperimenti condotti nel perimetro dell’orto. Amante degli agi, Paronzini seduce la maggiore impiantandosi in casa – invadendo, anzi, i letti di tutte le sorelle, trasformando la magione in uno sghembo harem. I piaceri negati – rattenuti dalla morale e dall’ingerenza della chiesa – esplodono dunque fuorimisura, con il lungolago a delimitare un orizzonte di vita laida, denso di umori e scricchiolii “boccacceschi”.
Tognazzi/Paronzini emblema della limitatezza
L’aria molle, tramata di malinconia soffusa, predispone la trama a un rovesciamento grottesco, dove il surmenage di Paronzini – con conseguente paralisi – risulta il compimento di un ordine “naturale”. Tutto, in quest’uomo, è votato al gallismo (categoria arcinota del cinema di allora) ma tutto è intessuto di un’untuosa limitatezza. Persino la ferita da reduce, da ex combattente sul fronte greco-abanese, è il marchio di dis-onore di un individuo mediocre, che reca nelle terga il suo il suo pseudo-valore.
“Un essere volgare per me è colui che non ha altri interessi al di là del sesso e del cibo, cioè un uomo assolutamente vuoto, privo di idee sul mondo che superino lo stato animale, che dico, vegetale. Privo di cultura; privo di sensibilità artistica. Tognazzi mi ha capito benissimo ed è stata una fortuna, perché Tognazzi è un attore stupendo se entri in sintonia con lui […]”[4].
Quanto alle donne, campioni di un erotismo che procede dai dettagli (le gambe, i capelli, le mani), compongono una totalità resa tale dal “brutto”. È la segmentazione delle parti – più che il corpo in sé – a muovere l’occhio di Lattuada. E non vi è riscatto etico né esaltazione del diverso; solo il disvelamento di certe pratiche, di comuni – seppur inconfessabili – meschinità umane.
Note
[1] A. Lattuada, I miei film con Chiara, in “Tutto Libri”, 22 febbraio 1986.
[2] O. Caldiron, L’occhio di Lattuada, prefazione ad A. Zanellato (a cura di), Venga a prendere il caffè… da noi, Atripalda, Mephite, 2015.
[3] U. Tognazzi in “Ecran”, 73, Parigi, 19, novembre 1973, p. 8.
[4] La definizione si deve a Goffredo Fofi ed è tratta dalla quarta di copertina del volume di Zanellato.
[5] Citazione di A. Lattuada in C. Cosulich, I film di Alberto Lattuada, Roma, Gremese, 1985, p. 98.
Seguici su Instagram, Facebook, Telegram e Twitter per sapere sempre cosa guardare!