Se per caso avete mai affrontato una recensione di un film di Checco Zalone saprete già che lo schema è ormai canonico. E salvo variazioni si presenta come segue:
- paragrafo sulla “maschera zalone”, con annessa riflessione sul racconto dell’italianità mostrata.
- Paragone con Sordi, e se la recensione vuol essere ricercata anche Troisi.
- Riflessione politica, spesso portata a termine con una resa davanti ai risultati del botteghino.
- Dissertazione sull’obiettivo zaloniano, differente a seconda che il giornale sia di destra o sinistra.
La struttura può variare nell’ordine, e con Tolo Tolo, ultima fatica del comico pugliese, si presenta con un commento alla sceneggiatura di Virzì (che secondo molti aggiungerebbe valore alla pellicola) o una riflessione generale sul legame con il fu governo giallo-verde. Il problema di questo impianto però, nel suo proporre una continua, seppur interessante, variazione degli stessi concetti, è il perdere costantemente l’oggetto del discorso. Ossia il film.
Quest’ultimo sembra, in mano alla critica (o ancor peggio alla politica), un efficace strumento retorico per parlare d’altro, quasi sempre di un Zalone declinato in senso assoluto. Zalone è, Zalone non è, insomma è tutto. Cosa sia sia invece Tolo Tolo, fuor di retorica e senza obiettivi politici, è forse un po’ più difficile da capire, e questo perché a confronto con la filmografia del comico, quest’ultima opera è molto più ambiziosa e complessa.
Il risultato però, anticipiamo, è ben al di sotto dei buoni propositi, e vede come principale responsabile l’assenza di una comicità significativa.
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Tolo Tolo, quando manca la risata
Tolo Tolo racconta di Checco, doppio narrativo del doppio comico che risponde al nome di Luca Medici (praticamente una messa in scena di terzo grado), che nel tentativo di sfuggire al fisco italiano decide di scappare in Kenya, da cui a sua volta andrà via seguendo la tragica rotta dei migranti verso l’Europa. Obiettivo il Liechtenstein («il segreto bancario…»).
L’idea sulla carta è perfetta e ambiziosa. La sceneggiatura di Paolo Virzì cerca infatti di affiancare ai temi più tradizionalmente “zaloniani” (il fisco come nemesi, l’amore impossibile ecc.), la difficile narrazione delle migrazioni. L’Italia viene così eliminata dall’inquadratura, che riempiendosi invece dei campi lunghissimi di un’Africa spettacolare, lascia alla sceneggiatura l’arduo compito di continuare a raccontare il bel paese. È così che nelle parole di Zalone (italiano picolissimo nella vastità africana) riprende configurazione il peggior animo dello stivale, seppur in una formula molto meno efficace delle precedenti. La linea comica ripercorre infatti sempre gli stessi fondamenti presentati a inizio film, con uno Zalone che, ignorante, razzista e via discorrendo, compara le proprie disgrazie (la crema per le occhiaie simbolo di civiltà!) ai tragici fatti da cui fuggono i comprimari di questa storia. Dopo un paio di sorrisi risulta però quasi impossibile trovare divertente l’ennesimo rimescolamento di questa comicità tanto facile quanto sterile.
Mentre Zalone martella imperterrito sulla stessa battuta (“maledetta quella volta che ho fatto la dichiarazione!”), attorno a lui si accennano eventi che cambiano la forma del film, quasi annullando la commedia. Che ci sia un problema di omogeneità nella sceneggiatura si rende così palese quando al continuo rimescolamento della stessa battuta, il personaggio Zalone si rivela quasi “in più”, fuori luogo narrativamente, e non “comicamente”, come accadeva invece in un film come Cado dalle Nubi. Il mondo che gira attorno a Checco, composto da personaggi molto più difficili di lui (l’ambiguo Oumar e la misteriosa Idjaba), accenna a una complessità che la natura della commedia non si propone (giustamente) di approfondire, ma che, in assenza di risate, si rivela semplicemente superficiale. Quando infatti il film arriva attorno al terzo quarto d’ora senza che in sala (piena come in tutte quelle dei cinema con in cartellone Tolo Tolo) sia ancora scattata la risata, qualcosa sembra non funzionare. E mentre si approfitta del tempo liberato dall’assenza di risate per notare come la regia di Luca Medici (ossia Checco Zalone senza maschera) ricerchi con attenzione l’immagine perfetta, con un cameracar che insegue nel deserto un camion pieno di bagagli e migranti, si realizza che le migliorie tecniche che donano lustro al film non riescono a sopperire al silenzio assordante di una comicità quasi nulla.
Ci sono alcuni momenti significativi, in un paio di casi addirittura interessanti. Tra questi gli stacchi musical che prendono il via nei sogni di Checco, funzionali in quell’accostamento comico alla tragedia (seppur cadano più nello straniante che nell’esilarante), o l’attimo (toccante) in cui, giocando con lo spettatore al richiamo della tragedia dei morti nel mediterraneo, insegna al piccolo Dudu («ti chiami come il cane di Berlusconi!») a nuotare. Nessuno di questi momenti è però accerchiato da una struttura narrativa necessaria a rendere pregnante il racconto, che sul (non)finale sembra abbandonare tutti i propri propositi per chiudere in maniera raffazonata il film, senza che il percorso del suo protagonista venga concluso.
Il problema sembra così riconducibile a una cattiva scrittura del protagonista, un Checco che a differenza delle “avventure” precedenti non ha un vero obiettivo, e meno che meno un carattere. L’attacco di Fascismo che sembra coglierlo a volte non è ad esempio sostenuto da una reale caratterizzazione, e nel suo riferirsi a un’idea più ampia di italianità («il fascismo lo abbiamo tutti dentro») mostra il vero problema del film. Nell’inseguire la maschera totale, Zalone opta infatti per un personaggio vuoto, utile per essere ogni italiano possibile, ma ovviamente incapace di reggere un film. Zalone è così incastrato nel voler essere il personaggio di cui poi si scriverà, mettendo assieme tanti particolari accennati e abbandonati (il voice over, la famiglia in Italia, la fuga dal fisco ecc.), e privando così lo spettatore di un personaggio da seguire. Fa qui comodo a Medici la confusione che molti sembrano fare tra l’artista Luca, il comico Checco e il personaggio Zalone, quella messa in scena di terzo grado che permette ad alcuni di confondere storia e realtà, e in questo caso di imbottire il personaggio con la persona.
Si perde dunque il carattere particolare del protagonista, forse nella speranza che i film precedenti (il cui protagonista è sempre un Checco) fungano da riferimento. Nel risultato però sembra ancora lontano il Checco Zalone Universe, e Tolo Tolo, che guadagna in immagine, set, spunti e comprimari vari, perde lì dove dovrebbe essere imbattibile: la commedia.
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