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Lightyear, la vera storia di Buzz è un dolce fallimento utile a tutti

La vera storia di Buzz arriva nei cinema il 15 giugno 2022 e potrebbe a sorprenderci con un messaggio più cupo e realista del previsto.

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10 minuti di lettura

Per Pixar non è mai stato così importante vendere un giocattolo. Perché Lightyear ha un obiettivo: convincerci della meraviglia provata da Andy nel 1995 alla visione del primo space ranger. Il nuovo film della casa d’animazione sarebbe infatti lo stesso visto dal bambino – come proclama con epicità il frame iniziale – spinto dall’incanto delle avventure spaziali ad acquistare Buzz e dare così inizio a Toy Story.

Per quanto lontano anni luce (letteralmente) dagli eventi della saga, Lightyear, nei cinema da mercoledì 15 giugno 2022, è dunque più importante del previsto. Deve convincerci che l’euforia di Andy ebbe ragione di esistere. Una responsabilità che Pixar affronta con il coraggio dimostrato in Toy Story 4, quando le vicende sembravano esaurite e l’eredità della saga troppo importante per essere messa in pericolo da un capitolo di troppo.

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La scelta di raccontare cosa si celi “oltre l’infinito” prende le forme di una sci-fi moderna e sorprendentemente cupa. Buzz è un eroe noir, meno avvezzo al dolce ridicolo di cui si tingeva il giocattolo di Toy Story e costretto ad affrontare la propria fallibilità.

Se per lo Space Ranger in plastica era importante capire di essere un giocattolo, per il Lightyear spaziale si rivelerà vitale accettare di essere umano. Una lezione importante, che forse non avrebbe venduto a Andy il proprio giocattolo ma che – se nel 1995 fosse davvero uscito un film così, quando la fantascienza era altro – lo avrebbe reso un adulto migliore. Anche perché il nuovo balocco Pixar è un altro: l’irritante gattino robot Sox che accompagna Buzz nella sua avventura. Un pupazzo permeato della comicità sullo stampo della Disney odierna per cui non getteremmo mai il nostro Woody. Ma restiamo con Buzz, perché oltre l’infinito c’è qualcosa che ci riguarda.

Lightyear al commando stellare

Lightyear è una storia nuova. Un film sci-fi rigoroso e sufficientemente creativo, capace perlopiù di pescare dai migliori cassetti del genere e di bagnarsi delle nuove sensibilità contemporanee.

Per fortuna è Pixar, dunque l’universo ha un respiro prettamente umano e non cerca l’epopea galattica. Lightyear infatti gira attorno a un pianeta alieno e ai tre anelli nella sua orbita. Il cosmo è tutto Buzz, eroe solitario le cui scelte hanno portato alla tragedia: un errore in fase di decollo da un pianeta paludoso ha costretto il numeroso equipaggio a fondare una colonia in attesa che il dispositivo utile a ripartire venga aggiustato.

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Il nostro eroe si addossa le colpe e le loro soluzioni, che hanno però risvolti imprevisti. L’ossessione di Buzz lo porta a sperimentare missioni spaziali con un nuovo propulsore che avvicinandolo alla velocità della luce rallenta il tempo percepito rendendolo più lento di chi lo attente sul pianeta. Quattro minuti di esperimento in orbita equivalgono a quattro anni per i coloni a terra. Conscio del rischio, Buzz ci prova. Ancora e ancora. Di quattro anni in quattro anni osserva amici e colleghi invecchiare mentre lui resta vittima immobile di un gioco autoinflitto che lo incunea sempre più, e senza soluzione alcuna, nella consapevolezza del proprio errore.

Oltre l’infinito ci siamo sempre noi

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Il nuovo Buzz è testardo e un po’ malinconico. Ci piaceva così, prima che arrivasse il gruppo. Perché anche Lightyear come Toy Story è un racconto corale. Pixar consegna sempre al singolo un messaggio di collettività.

La storia del soldato in una missione di conclamato fallimento è però più interessante della scampagnata tra amici che Lightyear imbastisce sul finale. Gli accompagnatori sono buffoneschi – sacrificati al servizio di facile comicità (la dannatissima penna a cui uno di questi dedica il proprio screentime) – e ripetitivi. Dal punto di vista della composizione, il gruppo è però un’amalgama riuscita di età ed etnie. Una formula di rappresentatività che Pixar e Disney stanno mettendo a punto con ottimi risultati e che, al netto delle opposizioni dell’Arabia Saudita e dei perbenismi nostrani, è efficace e mai di troppo. Anzi, la prima apparizione di una coppia lesbica (con figli) in casa Pixar è protagonista della sequenza più toccante del film, per quanto del tutto derivata da Up.

Lightyear ha infatti il limite di non andare mai oltre l’infinito Pixar, preferendo trincerarcisi dentro. L’animazione è mozzafiato ma le scelte di montaggio e regia producono dejavù degni della miglior novella fantascientifica. L’abbiamo già visto, proprio in Up, l’effetto di una vita riassunta in pochi tagli: è strappalacrime, ma risultato di una formula studiata in vitro.

Per trovare novità dobbiamo restare con la nevrosi di Buzz, che giunge al climax con una rivelazione che potrebbe far storcere il naso degli appassionati di Toy Story ma che dimostra la disponibilità a piegare la mitologia del personaggio alla morale del film.

Il Buzz solitario è un esemplare di nevrosi che conosciamo. Lo riconoscono i bambini, lanciati alla velocità della luce verso un mondo in cui forse non esiste una soluzione a tutti gli errori dell’uomo. Nella più testosteronica e classica delle avventure, Buzz farebbe del viaggio nel tempo un’arma risolutiva e infallibile. Ne sa qualcosa Chris Evans, che in Avengers è Captain America e qui dà la voce a Buzz.

In Lightyear invece si gira su se stessi e il viaggio nel tempo consuma chi dentro il tempo non vive più. Con l’universo a disposizione siamo sempre lì, in un pianeta che è la follia stessa di Buzz, proiezione di un’impossibilità ad andare avanti e un invito a fermarsi. La soluzione corale offerta dal film non convince mai davvero, perché il dramma in apertura è più profondo e sembra riguardarci da vicino.

Angus Maclane dirige Lightyear con l’idea di cinema già proposta nel sequel di Alla ricerca di Nemo, Finding Dory, dove alla dolorosa riflessione sul ricordo veniva alternata un’azione impacciata e fuori tono. Allo stesso modo, Lightyear non compie l’intera orbita necessaria a rendere Buzz più di un prezioso spunto, ma non per questo possiamo sottovalutarne gli effetti sul giovane pubblico e su chi tra noi è disposto a guardare oltre i limiti di un brutto gatto robot e di un personaggio e la sua penna magica.

Lightyear e Top Gun: messaggi e generazioni

Lightyear arriva in sala due settimane dopo Top Gun Maverick. I bambini accorsi al cinema per le avventure dello Space Ranger non avranno di certo assistito al volo di Tom Cruise, ma nei montaggi fortuiti – e ricercati – della distribuzione c’è un legame inaspettato e curioso tra i due film.

Lightyear inizia con un fallimento e su questo permea la propria avventura. L’egocentrico Buzz cerca di portare la propria navicella oltre un promontorio per abbandonare il pianeta. Si stringe alla cloche e solleva il velivolo. Può farcela, può farcela, come Pete Maverick Mitchell quando deve superare una montagna per sfuggire ai nemici dello stato canaglia. A differenza di Tom Cruise, però, Buzz fallisce. Top Gun Maverick ci dice che se il sole scioglie la cera delle ali è perché devi costruirle meglio. Buzz, al contrario, scoprirà che mentre tenta e ritenta di volare via e salvare tutti, a terra – in quel luogo eretto sul suo errore – c’è comunque una vita che vale la pena vivere. Due visioni opposte dell’eroismo e del successo, per pubblici differenti e generazioni con prospettive del tutto opposte.


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Studente di Media e Giornalismo presso La Sapienza. Innamorato del Cinema, di Bologna (ma sto provando a dare il cuore anche a Roma)e di qualunque cosa ben narrata. Infiammato da passioni passeggere e idee irrealizzabili. Mai passatista, ma sempre malinconico al pensiero di Venezia75. Perché il primo Festival non si scorda mai.

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