L’intendente Sanshō esce nel 1954 ed è considerato uno dei grandi capolavori del maestro giapponese Kenji Mizoguchi, in attività già dal lontano 1923 e nel pieno della sua maturità artistica. Il soggetto trae ispirazione da leggenda medioevale giapponese.
Il film valse a Kenji Mizoguchi il terzo Leone d’argento consecutivo al Festival di Venezia.
L’intendente Sanshō calato nel suo contesto storico
La sequenza iniziale si apre sull’inquadratura fissa di alcune rovine, probabilmente di un’antica corte imperiale, ed è corredata da una serie di didascalie in sovrimpressione che introducono al mondo del racconto: siamo nel Giappone del XI secolo, durante il periodo Heian, un’epoca in cui, parafrasando, l’umanità non aveva ancora aperto gli occhi sugli altri uomini in quanto esseri umani.
Già dall’opening shot si evince la natura profondamente umana e tragica del racconto che sta per dispiegarsi.
Il contesto storico in cui esce L’intendente Sanshō lo lega a doppio filo coi sentimenti di un dopoguerra che ha lasciato il Giappone in uno stato di spaesamento, succube si un contraccolpo che ha lacerato profondamente il paese e i valori morali. La resilienza di fronte alla corruzione del Potere esercitata col terrore e con la violenza, la valenza morale del proprio vissuto e la forza degli affetti sono alcuni dei grandi fulcri vitali de L’intendente Sanshō.
Di cosa parla L’intendente Sanshō?
La forte posizione politica di un padre, in un’epoca in cui gli ideali morali erano soggiogati a una cultura gerarchica e classista, costringe la sua intera famiglia all’esilio. La moglie Tanaki e i due figli Anju e Zushiō intraprendono così un viaggio che non giungerà mai a destinazione, perché la donna finirà venduta a Sado come prostituta e i figli, rapiti e venduti come schiavi, andranno sotto la giurisdizione dello spietato intendente Sanshō. La sequenza del rapimento in L’intendente Sanshō è una pagina di cinema, meravigliosa e tragica: la natura immobile, con la tavola piatta dell’acqua e una coltre di nebbia, crea un sentimento di stasi spezzato dal rapimento e dalle grida sorde dei personaggi.
Subito dopo il rapimento un’ellissi temporale di dieci anni ci porta avanti nel tempo. Già dalla prima inquadratura s’intuisce che qualcosa è cambiato. Se Zushiō e Anju si addormentano insieme, nello stesso letto, l’inquadratura dopo l’ellissi li vede in letti separati, in posizioni speculari. É il segno della corruzione di Zushiō e della distanza emotiva che il tempo e la prigionia ha creato nei due fratelli. Nell’anima d Zushiō sembra essersi insinuato il germe della violenza, corrotto dall’ambiente di degradazione morale che lo circonda, ormai dimentico degli insegnamenti del padre sulla virtù della compassione.
La via di Zushiō e le figure femminili
La perdizione di Zushiō e la lotta per ritrovare se stesso costituiscono uno dei punti cardine de L’intendente Sanshō. L’atto di presa di coscienza coincide con un atto di memoria suggerito dal parallelismo tra una sequenza del presente narrativo e la rievocazione di dieci anni prima, che permette a Zushiō di rivivere per qualche istante quell’infanzia perduta.
Il ruolo cangiante di Zushiō durante il racconto (da nobile a schiavo, da ragazzo ad adulto, da prigioniero a fuggitivo, da schiavo a governante) è proprio il segno di una ricerca interiore e di un’identità corrotta, in ultima istanza disegnata dalla cecità commovente della madre, che stenta a riconoscere il figlio.
Sebbene L’intendente Sanshō ruoti intorno alla figura di Zushiō, punto di convergenza tra l’affetto della madre e della sorella e dell’eredità morale paterna, i ruoli femminili hanno un ruolo altrettanto cruciale, tipicamente da Mizoguchi.
La sofferenza femminile è dipinta con commovente resilienza, dal coraggio tragico e dal sacrificio di Anju allo struggimento interiore della madre Tanaki, lontana dai propri figli.
Lontananza e soluzioni stilistiche
La lontananza è senza dubbio un altro dei punti focali de L’intendente Sanshō, che segna la distanza emotiva di Anju e Zushiō, la distanza geografica dei figli dalla madre e la distanza temporale e morale dal padre. La regia porta i segni di questa distanza e tenta di segnarla o di colmarla. L’uso magistrale del piano-sequenza collabora a costruire la complessità della continuità temporale e spaziale delle esperienze dei personaggi, nonché ad aggiungere gradi di solidità alla realtà della messa in scena.
Le meravigliose dissolvenze sono impiegate con altrettanta maestria per legare personaggi lontani nel tempo o nello spazio, nel primo caso con un atto-memoria che trascende l’impossibilità del tempo e nel secondo la vicinanza emotiva che controbilancia la distanza geografica. Un’ultima soluzione di racconto che lavora in questo senso è la voce di Tanaki, che colma la distanza spaziale coi figli, li raggiunge, trascende i limiti dell’inquadratura e rimane sospesa in un dimensione liminare tra l’eco illusoria di un passato ormai dissolto e un ultimo atto di speranza.
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