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«Lost in translation», per una diversa forma di malinconia

11 minuti di lettura

Lost in Translation di Sofia Coppola si articola di una sceneggiatura dolce come il rosa baby sul lato B di Scarlett Johansson. Non per niente, il titolo si stampa proprio lì, all’inizio del film , sul profilo di Charlotte (Johansson). Primo piano sulle sue curve. Su quel vedo non vedo, trasparente come le vetrate che danno sull’immensa e brulicante Tokyo.

lost in translation

L’attacco della pellicola già di per sé è disarmante, anticamera della malinconia che abbraccerà l’intera storia e i suoi protagonisti con lei. Perché dobbiamo dirlo: Lost in Translation è proprio malinconico, ma non nell’accezione più etimologica del termine, quella struggente e triste. Si nutre della sua inclinazione più delicata, quella delle vicissitudini sopite, che soltanto chi le vive può sentire.

Un rapporto appena sfiorato

Una sceneggiatura breve, di sole 76 pagine, fatte di parole sospese così come l’atmosfera che nasce dagli spazi tra un dialogo e l’altro. Spazi elastici, che si allargano e si restringono a seconda delle luci più o meno soffuse e delle note più o meno forti. Come pupille, uno sguardo sulla vita che scorre. Una musica soave e dall’aspetto candido copre come un velo l’intero film magistralmente diretto da Sofia Coppola nel 2003, aggiudicandosi il Premio Oscar come miglior sceneggiatura originale.

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La regista sceglie Bill Murray quale suo protagonista indiscusso: nelle vesti di Bob incalza la vita, frame dopo frame, con un’andatura leggera e soffice, a tratti ironica. Negli occhi di Charlotte egli rivede l’innocenza che forse ha perso, l’ingenuità di una gioventù ormai andata. Nel suo sorriso si risveglia la vita che si è lasciato dietro, quella che si trascina tra un bicchiere di whisky e l’altro, «Santory», come esclama con espressione suadente in uno spot pubblicitario giapponese per il quale viene profumatamente pagato: «Un paio di cose…Prendermi una pausa da mia moglie, dimenticarmi il compleanno di mio figlio e prendere 2 milioni di dollari per sponsorizzare un whisky mentre potrei essere a recitare da qualche parte». Risposta priva di false gioie non rivelate, tagliente nella sua triste veridicità, quella che Bill riserva alla dolce Charlotte.

«Lost in translation»: i protagonisti

Il primo vero incontro tra i due protagonisti avviene sul bancone del bar nel lussuoso hotel in cui alloggiano. Lei, neolaureata, in preda a quel periodo privo di sicurezze e colmo di dubbi che chiunque abbia studiato conosce bene, trascorre il proprio tempo nel tentativo di ammazzarlo in nome della solitudine a cui il marito, fotografo troppo impegnato, l’ha relegata. Lui, un uomo sulla 50ina abbondante, vestito di un abito non troppo formale e, apparentemente, troppo stanco. Un attore in declino alla ricerca del senso delle proprie giornate: lo si ravvisa nel riflesso sperduto dello sguardo che cerca in ogni dove, fuori dal finestrino del taxi o mentre corre forsennatamente sul tapis roulant. L’intera narrazione di Lost in translation è niente di più che l’incontro tra Bill e Charlotte e attorno ad essa si sviluppa con tacita calma. E’ la narrazione che racconta di loro o sono loro a narrare della propria storia?

Voglia di rincominciare

Mentre Charlotte si strugge per i suoi catartici momenti di crisi del suo neonato matrimonio che sembra già rivelare una tendenza infelice, Bill le strappa una risata qua e là, e da quel fatidico incontro gli angoli della bocca di lei si incurvano senza riabbassarsi più, sostenendo a loro volta quelli di lui. È una felicità condivisa la loro, ricercata, ognuno seguendo il proprio cammino, contando minuziosamente i propri passi, e trovata, finalmente. Condividono una tenerezza disarmante, un rapporto non platonico ma neanche fisicamente realizzato. Un sentimento tenue, accennato nei piccoli gesti verso l’altro in un incessante avvicinamento reciproco che sembra tradursi dapprima in una semplice  conoscenza, poi in una simpatica amicizia ed infine in un sentimento di non facile connotazione.

«Lost in translation», la parabola di un amore che può salvare

Una definizione può però essere dedicata a questo rapporto dai tratti salvifici: entrambi sono per l’altro un porto sicuro. Essi si comprendono condividendo un’empatia sconcertante, fatta di attimi che si susseguono lenti, si rincorrono spediti in quelli che li separano l’uno dall’altro. Non ci sono momenti di suspense, la sceneggiatura non prende nessuna piega strana o sconvolgente, nessun bacio passionale buca lo schermo sorprendendo lo spettatore che non stupito dichiara «Lo sapevo!». No. Per tutto il film il tempo scorre adagio, le luci si abbassano e i colori si attenuano, alternandosi a quelli della grande metropoli che non dorme mai. Bill e Charlotte la vivono, si lanciano nella vita che le scorre dentro con un entusiasmo quasi infantile. Dal pranzo insieme al pub a cantare al karaoke a squarciagola indossando una parrucca rosa fluo, al night club vissuto con dissacrante umorismo.

Lei finalmente si sente capita, compresa. Sente di aver trovato qualcuno che le stia vicino, che l’accompagni lungo i suoi passi cadenzati, tendendole la mano e stringendole la sua. Le labbra carnose le si schiudono su un sorriso a tratti imbarazzato, inizialmente, ma si apre sempre di più, lasciando uscire quella gioia di vivere che il marito, per quanto lo faccia di mestiere, non è riuscito a fermare tramite istantanee, perché ormai spento, colpevole di avervi contribuito. Socchiuso e contenuto dietro i suoi impegni concitati, i ritardi, le uscite senza preavviso, le dimenticanze. Charlotte si stringe la punta delle ginocchia, con una pressione che possa sembrare anche solo per qualche momento rincuorante.

Un’opera sussurrata

Lo sguardo fisso sulla vetrata mostra alla protagonista un mondo esterno in cui lei non sa dove andare. Ma, in questo cammino, nella perdita costante di una direzione che sia definitiva, il viso segnato dai solchi del tempo di Bill le dà nuovi occhi con cui scegliere un percorso o, semplicemente, le riapre i suoi. E lui rivive con lei. Charlotte gli preme le dita dei piedi contro, accovacciata in una posizione pressoché fetale e lui di tutta risposta le accarezza il dorso del piede, glielo stringe di una stretta tenera.

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Immagine emblema dell’intero film, Charlotte e Bill dormono uno affianco all’altro, dove il contatto è minimo ma importante, presente. Necessario. «Più conosci te stesso e sai quello che vuoi, meno ti lasci travolgere dagli eventi», afferma Bill. «Io non so cosa voglio diventare, capisci?», incalza Charlotte che riceve la calda risposta di Bill: «Ce la farai di sicuro. Non sono preoccupato per te. Continua a scrivere». Lei non convinta reclama «Ho dei limiti». Bill si gira, la guarda e le dice: «Non è un male». Un inno alla dolcezza, alla spensieratezza di vivere fuori dai limiti ordinari rispettando i propri, accettandoli nella consapevolezza che la perfezione non fa parte di questo mondo.

I silenzi parlano più delle parole

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Bill deve ripartire, il suo ruolo nella grande Tokyo è giunto al termine. A malincuore rende Charlotte partecipe dell’infelice notizia, già pronta a riceverla: prima o poi il momento della separazione doveva arrivare. Lo va a salutare, e con occhi che non tacciono neanche volendolo, si lasciano. Così, lui nella hall dell’albergo, lo stesso testimone del loro incontro, e lei che rientra in ascensore. Le porte si chiudono e il sipario scende sui loro incontri, i tanti che si sono susseguiti per l’intera narrazione.

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Bill prende il taxi che lo porterà in aeroporto ma lungo la strada percorsa per raggiungerlo, in mezzo a tutto il traffico concitato, la gente ammassata, una miriade di schiene tutte uguali, tutte diverse, come in unico grande puzzle, eccola. E’ lì. Lui la vede  e non può non fermare il taxi. Scende e scansando gomiti e facce sconosciute la raggiunge. «Ehi, tu». Lei si gira. È un abbraccio più forte della distanza che li separerà. Lui le bisbiglia all’orecchio qualcosa che non ci è dato sapere. Indecifrabile come il loro rapporto. Il bacio che si scambiano è una leggera stretta di labbra, appena accennato. Timido, come la loro intera relazione e la nascita stessa che l’ha vista crescere. Con un affetto disarmante si staccano. Bill riparte, torna alla sua vita. Lei continua il suo cammino, passo dopo passo. Lost in translation è un film fatto di poche parole ma di grandi silenzi, che parlano più delle parole stesse.

Articolo di Noemi Adabbo


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