Tortuosa e commovente la storia di Luigi Proietti detto Gigi, il bel documentario di Edoardo Leo presentato in anteprima al Festival del Cinema di Roma e nelle sale dal 3 al 9 marzo; concepito come lavoro sul rivoluzionario spettacolo del 1976 A me gli occhi, please, il film è stato ‘congelato’ dopo la morte dell’attore nel novembre 2020, inducendo Leo a una revisione d’impianto. Ne è nata un’opera completa, in cui il talento multiforme di Proietti si unisce allo sguardo di chi lo ha conosciuto, alla memoria felice di colleghi, collaboratori, amici e familiari.
Discrezione e passione
Nessun nostalgismo né eccesso di devozione; il regista è discreto, sempre un passo indietro, ricorda i colloqui nello studio di Proietti, la lunga intervista al Globe Theatre che è anche l’ultima della carriera:
“L’improvvisa uscita di scena di Proietti mi ha catapultato in un film dove era necessario ripercorrere non solo la sua vita ma andare alla ricerca del ‘suo segreto’. Un viaggio per svelare chi c’era dietro l’uomo di spettacolo”.
Così Leo in Luigi Proietti detto Gigi riallaccia i fili di una lunga storia, costellata di prove, tentativi, anni di studio finalizzati a un naturale equilibrio tra alto e basso, tra fasi sperimentali (soprattutto a teatro) e incursioni popolari. L’intero documentario alterna materiali di archivio – alcuni inediti e introvabili – alla voce commossa di chi prova a raccontarlo. Tra questi Nicola Piovani, che quasi incespica nel ricordo di un’amicizia speciale, e ancora Fiorello, Alessandro Gassmann, Paola Cortellesi, in varia misura debitori di quella sprezzatura, dell’agile ‘coabitazione’ tra poli opposti.
Una parabola straordinaria
In Luigi Proietti detto Gigi le immagini scorrono in progressione, disegnando una parabola che incrocia l’uomo al mestiere dell’attore, rievocando per flash – senza necessità di verbalizzare – la sua etica del lavoro, la serietà con cui passava dal cinema al teatro, dalla commedia musicale alla TV (e come era bello, possiamo dirlo, Il maresciallo Rocca). Ci si commuove dinnanzi alle prove giovanili, alla platea di bambini interdetti che assiste al suo sghembo Don Chisciotte nell’operazione di metateatro diretta da Carlo Quartucci per la Rai (1970). E ancora le prove canore, da brividi involontari, viscerali, come quel Nun je’ dà retta Roma dalla Tosca di Luigi Magni che accompagna i titoli di coda.
Viene difficile isolare un passaggio, scegliere tra gli sketch e i monologhi, tra il racconto di sé e certe fasi del suo percorso. Colpisce l’umiltà, il rispetto per l’altro, come nella rievocazione dell’incontro con Fellini, che lo vuole nel Casanova (1976) per doppiare Donald Sutherland:
Quando Fellini mi ha chiamato devo dire che io, in un primo tempo, ero abbastanza indeciso. Poi dopo ho pensato che in effetti mi piaceva essere coinvolto in questa operazione. È chiaro, per conoscere Fellini – che non conoscevo bene – e in effetti ho fatto bene, perché siamo diventati amici.
Alla giusta distanza
C’è un grande rispetto in Luigi Proietti detto Gigi, uno sguardo affettuoso che Edoardo Leo dispiega su ogni fotogramma riempiendo anche gli intermezzi di levità, scongiurando così il rischio dell’idolatria, del ritratto posticcio da anniversario. Quando lo schermo si fa buio non viene da chiedersi che cosa manca, perché non ci sia più infanzia, più (auto)narrazione. Tutto è calibrato, alla giusta distanza. A me gli occhi, please: ancora una volta.
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