Realizzato da nove studenti della Scuola d’Arte Cinematografica “Gian Maria Volonté”, Giulia Cacchioni, Marcello Caporiccio, Egidio Alessandro Carchedi, Francesco Di Nuzzo, Francesco Fulvio Ferrari, Luca Iacoella, Giulia Lapenna, Giansalvo Pinocchio e Sabrina Podda, sotto la supervisione del direttore artistico della Scuola Daniele Vicari, L’ultimo piano è una produzione Vivo film che è stata presentata in anteprima lo scorso novembre al Torino Film Festival, nella sezione “Festa Mobile”, ed è ora visibile in streaming sulla piattaforma gratuita RaiPlay.
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L’ultimo piano: la storia
Ambientato nel quartiere di Tor Marancia, in una Roma post industriale dai tratti duri e spigolosi, L’ultimo piano racconta la vita di tre ragazzi e del loro inusuale proprietario di casa, Aurelio (Francesco Acquaroli), ex cantante punk di una band ormai sciolta da anni. Diana (Yuliia Sobol) è una studentessa di Giurisprudenza, arrivata in Italia qualche anno prima con il padre dall’Ucraina, Flora (Marilena Anniballi), poco più grande, lavora come barista in un locale notturno, mentre Mattia (Simone Liberati) mette da parte i risparmi pedalando come rider per le consegne a domicilio.
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Alle prese con le piccole e grandi difficoltà della vita di tutti i giorni, i quattro vivono insieme ma in continuo disaccordo, inascoltati e incompresi dagli altri e da loro stessi. Sarà l’arrivo e la permanenza, seppur temporanea, del piccolo Adriano (Francesco Tiburzi), figlio di Flora, a sconvolgere gli equilibri (e gli squilibri) della casa, mentre la giovane ragazza-madre dovrà superare una dura prova di maturità che non solo la spingerà a ripensare se stessa e le proprie prospettive, ma che la costringerà a fare i conti con un passato oscuro.
Le fragilità di una generazione ancora da definire
A fronte di un passato fatto di molti “spazi bianchi”, spesso incolmabili, i giovani protagonisti vivono una condizione di solitudine sociale e interiore che riassume il senso di profonda incertezza che attanaglia la loro generazione.
Il rapporto con la propria storia è elemento essenziale che caratterizza il confronto tra giovani e adulti. I personaggi vivono in un presente difficile nella speranza di emanciparsi da un passato spesso fosco e doloroso, mentre Aurelio, l’unico protagonista adulto, vive in un imperituro passato, riascoltando fino alla follia l’ultimo nastro dei dialoghi con i compagni della sua band.
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Entità che si eleva al di sopra del mondo reale, Aurelio è una sorta di spirito che abita la casa e che unisce i protagonisti, prigionieri della paura di fallire e di andare oltre le virtuali “mura” della solitudine. La casa funge da metafora della condizione in cui i suoi inquilini vivono. Inizialmente poco disposti a condividere, i ragazzi alloggiano in camere singole, mangiano a orari diversi. Ossessionati dal desiderio di realizzarsi come adulti, i tre giovani protagonisti vivono nel corso della storia una crisi di identità, che da un atto di fuga si trasformerà in un momento di smarrimento destinato a cambiare il corso degli eventi. Partito come l’insieme di quattro storie apparentemente parallele, nel finale il film si trasforma in un’avventura corale che letteralmente sfonda ogni porta chiusa per aprirsi agli altri e al mondo.
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Una convincente prova di regia
Caratterizzato da uno sguardo giovanile ma allo stesso tempo consapevole, il film colpisce perché capace di raccontare con occhio sincero le incertezze di una generazione fragile e silenziosa in cui molti giovani spettatori potranno riconoscersi.
Apprezzabile è la prova di attori emergenti ma di talento, capaci di farsi rappresentanti delle difficoltà dei loro coetanei, mentre un generoso e vitale Francesco Acquaroli ha contribuito ha dare al film un valore aggiunto. L’ultimo piano è un film dai toni realistici ma dal sapore magico, che si focalizza sull’interiorità e che riunisce con uno stile coerente e coinvolgente nove diversi punti di vista.
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Scorrevole e gradevole alla visione, L’ultimo piano è un’opera prima che speriamo non sia l’ultima, un film che non ha nulla da invidiare ad altre produzioni professionali, segno di un promettente cinema italiano giovanissimo sicuramente in ascesa.
L’intervista a Marcello Caporiccio, come nasce L’ultimo piano
Abbiamo avuto l’opportunità di fare qualche domanda a Marcello Caporiccio, uno dei nove registi del film, 23 anni, di Fondi (Latina), diplomato lo scorso anno alla Scuola “Gian Maria Volontè” e già regista del cortometraggio Alma.
Come è nata l’idea del film e come si è formato il vostro gruppo?
Il film è stato realizzato da un gruppo di studenti. Noi registi, attori e maestranze, siamo stati compagni di studi alla Scuola “Gian Maria Volontè”. Il progetto di girare un film era nell’aria già dal primo anno del triennio. Poi alla fine del secondo anno questa idea si è concretizzata, grazie a Daniele Vicari che ha offerto agli sceneggiatori lo spunto per un soggetto ispirato dal film L’amore in città, un‘opera generazionale ma allo stesso tempo corale, che nasce da un progetto scolastico per diventare un film a tutti gli effetti. Siamo partiti con otto sceneggiatori (Fatima Corinna Bernardi, Flavia Bruscia, Sofia Cocumazzo, Giacomo La Porta, Francesco Logrippo, Marco Minciarelli, Giorgio Maria Nicolai, Nimai Andrea Serrao) e quattro personaggi, e nella seconda stesura della sceneggiatura noi registi siamo stati coinvolti per completare il lavoro. Siamo stati un gruppo classe molto unito, abbiamo tutti la stessa età, tra i 22 ai 25 anni. Il lavoro di preparazione fatto prima delle riprese è stato di fondamentale importanza. È un film che ha una base forte e il metodo produttivo che abbiamo applicato, pur essendo in nove, è stato quello delle serie tv, che poi corrisponde anche al tipo di formazione che abbiamo ricevuto alla Scuola “Gian Maria Volontè”.
Con che criteri avete fatto i casting?
La nostra direttrice del casting è stata Stefania De Santis, una presenza preziosa. Nonostante infatti noi registi ci fossimo “spartiti” i personaggi, lei ha insistito affinché tutti partecipassimo alla selezione degli attori. E ciò ha contribuito a farci sentire il film completamente nostro.
Quali sono le difficoltà che il vostro gruppo ha dovuto affrontare nel corso della realizzazione del film?
Ritengo che, insieme agli sceneggiatori, siamo stati molto uniti sotto numerosi punti di vista. Certo, a volte è stato necessario scendere a compromessi, ma siamo stati sempre d’accordo sulla storia e sui temi, attraverso un percorso comune di crescita personale e professionale. Prima di iniziare le riprese abbiamo voluto svolgere un lavoro di ricerca, andando anche a intervistare persone che hanno ispirato i nostri personaggi. Per esempio, abbiamo intervistato rider, ragazze-madri, studenti universitari. E questo ci ha aiutato molto a capire cosa volevamo raccontare. Lavorare in nove ci ha permesso anche di imparare l’uno dall’altro, soprattutto nei momenti in cui è necessario farsi da parte e fidarsi dei propri colleghi. Il lavoro di coordinamento degli aiuto-regista Marco Angeli e Giulia Lapenna è stato essenziale, mentre tra registi ci siamo divisi i compiti secondo le nostre caratteristiche e attitudini: c’è chi ha seguito di più la fotografia, chi la scenografia… Alla fine il cinema è un lavoro di squadra.
Qual è l’importanza della collocazione architettonica che parte proprio dal titolo L’ultimo piano?
Per quanto riguarda il palazzo e le ambientazioni, i reparti di produzione di scenografia hanno svolto un lavoro molto preciso. L’idea di scegliere un palazzo popolare ha trovato subito tutti d’accordo. Poi le scenografe Valentina Psenner e Anastasia Bresciani hanno dato un contributo fondamentale per la ricostruzione dell’appartamento, che nel film rispecchia nei minimi dettagli le caratteristiche della personalità del suo proprietario. Questo palazzo ci convinceva perché trasmette una sensazione di realismo profondo con degli accenni di magia. Per quanto riguarda il quartiere, non volevamo dare una connotazione geografica precisa alla nostra storia. Non ci interessava infatti ciò che accadeva fuori la casa, ma ciò che vi accadeva all’interno. Il titolo, L’ultimo piano, è arrivato dopo, a suggellare che gli stessi personaggi vivono in una condizione fisica e psicologica da “ultimo piano”.
Interessante è il tema del confronto tra generazioni…
Il rapporto tra generazioni è importante e la storia si presta bene a questo tema. Aurelio è un adulto, ma anche un emarginato che nonostante la sua età è rimasto un idealista. È un irriducibile rispetto agli adulti della sua generazione che invece sembrano essersi dimenticati del loro passato ideologico. Lui crede molto nei suoi valori, e per questo è paradossalmente più giovane degli stessi protagonisti. Gli attriti che nascono dallo scambio generazionale sono chiaramente frutto di un gruppo di persone che vivono insieme, ma che non sanno comunicare perché non si sanno ascoltare. L’unico a rompere questo muro è Adriano, un bambino, mentre i ragazzi vivono le difficoltà di un’età fatta di incertezze e di precarietà che impedisce di stare bene anche con loro stessi, in un limbo tra infanzia e età adulta. Basta pensare al personaggio di Mattia. Nel corso del film non lo vediamo mai parlare con nessuno. Rifiuta di corteggiare una coetanea per le attenzioni di una donna molto più grande di lui, come se sentisse ancora il bisogno delle cure di una figura materna. Questi ragazzi sono volutamente soli perché riflettono una condizione tipica di questa età, sia dal punto di vista lavorativo che accademico. Questo film alla fine parla della difficoltà del sentirsi parte di qualcosa, un aspetto comune a tutti.
Cosa viene dopo questo film? Avete altri progetti, collettivi o individuali?
Al momento sto lavorando a un documentario insieme a un altro regista de L’ultimo piano, Francesco Fulvio Ferrari. A causa dell’emergenza sanitaria abbiamo potuto girare solo i primi quattro giorni. Il documentario tratterà della violenza di genere.
C’è la possibilità che il film possa essere proiettato anche nelle sale cinematografiche?
Inizialmente questa possibilità c’era, ma alla fine abbiamo deciso di percorrere altre strade. Abbiamo pensato che lo streaming potesse essere la migliore forma di fruizione. Anzi, dobbiamo ringraziare Rai Replay per questa possibilità.
Per concludere, qual è la tua scena preferita del film?
La mia scena preferita è, secondo me, una delle più emblematiche del film. Si tratta della scena in cui Diana esce a ballare con Flora. Poco dopo, Diana viene abbandonata da Flora e, nonostante l’atmosfera particolarmente piacevole e divertente, Diana si blocca e rimane sola, quasi a dirsi: «io qua non c’entro nulla». Ecco, questo momento è chiave per la lettura del film.
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