Un anziano signore vive da solo in una casa tempestata da quadri di Van Gogh. La giostra dei meccanici gesti quotidiani è rintoccata da suoni insistiti che compensano le assenze: della vista, degli affetti, della libertà di affidarsi all’altro. Franco Nero interpreta Emanuele, un uomo cieco e misantropo a cui basta udire una voce per ritrarre l’esatta fisionomia di chi ha di fronte.
Ispirato a una storia vera e distribuito nelle sale dal 2 marzo, L’uomo che disegnò Dio è il secondo lungometraggio diretto dallo stesso Franco Nero: un viaggio di (ri)connessione umana con l’essenza di sé nell’era della glorificazione delle apparenze.
Lo spunto alla narrazione ha le premesse per un’opera interessante, tuttavia la stratificazione di temi finisce per smascherare una superficialità espressiva auto-sabotante, anacronistica nel tentativo di sviscerare la società dai suoi mostri più temibili e ingenua nel cadere in una forma di sensibilizzazione all’inclusione, di fatto, beffardamente discriminatoria.
L’uomo che disegnò Dio: il racconto frana su se stesso
L’intreccio de L’uomo che disegnò Dio è uno schema narrativo di difficile ricognizione, vittima di un disordine degenerativo in cui è facile perdere l’orientamento. Inizia in modo semplice, presentandoci un uomo che insegna carboncino e ritrattistica nel corso pre-serale gestito da Pola (Stefania Rocca), un’assistente sociale molto vicina al protagonista. Tra gli studenti c’è una nuova arrivata, Iaia (Isabel Ciammaglichella), ragazzina di dodici anni immigrata in Italia insieme a sua madre Maria (Wehazit Efrem Abrham).
Una serie di infelici eventi, tra cui un accenno a una molestia subita sul posto di lavoro, fa sì che le due donne si trasferiscano a casa di Emanuele, ricambiando il vitto con l’aiuto domestico.
La curiosità di Iaia infrangerà a poco a poco ogni resistenza empatica dell’uomo, finendo per instaurare fra i due un legame emotivo di profonda affinità.
L’espediente che muove la storia è un video girato dalla giovane durante una sessione di disegno e successivamente postato online all’insaputa del protagonista. Gli ingredienti per la viralità sono tutti sintetizzati dalla straordinarietà del dono di lui, suo malgrado autore di una crescente esposizione che desterà l’interesse di una trasmissione televisiva: il Talent Circus.
Ora, che il programma sia un circo, per definizione luogo di freaks e talenti strumentalizzati, è già, di per sé, il primo segnale di dove la morale del film vorrà andare a parare. Da qui in avanti il racconto franerà progressivamente su se stesso, ramificandosi in eventi, colpi di scena e risoluzioni entropicamente avvitati gli uni sugli altri. La tv sfrutterà la risonanza dell’uomo, l’uomo ridicolizzerà se stesso per guadagnare soldi, il tutto sostenendo una rappresentazione caricaturale e ostracizzante del mezzo e dei suoi lavoratori.
L’uomo che disegnò Dio: i problemi di rappresentazione
Arrivati a questo punto il messaggio appare chiaro: il male di vivere non risiede nel buio della cecità ma nella mediocrità mostruosa del mondo reale. E allora alla visione della vita così com’è si preferisce l’immaginazione, acuita e sensibilmente cullata dalla necessità di compensare la mancanza di un senso con lo sviluppo degli altri. Fantasia e riproduzione tecnica, verità e apparenza, autenticità e venalità di sé. Tutte tematiche ancora calde nell’attualità dell’epoca iper-soggettivizzata in cui viviamo, che tutt’oggi richiama discussioni a cui il cinema può, a ragion veduta, partecipare.
La problematicità de L’uomo che disegnò Dio, però, è nella scelta di rappresentazione. Sorvolando sugli aspetti tecnici, poco ispirati in tutti i reparti, ciò che davvero annienta il film è la sua genericità. Giunti circa a metà visione, quello a cui sembra di assistere è un minestrone confuso di temi accennati e banalizzati, mai sorretti da un sostanziale approfondimento.
Partiamo dalla tv: produttore, direttrice artistica e l’intero sistema sono vittime di una caratterizzazione macchiettistica, rigidamente settaria nell’ascrizione a una negatività assoluta. La loro messa in scena è semplificata dal solo interesse verso il denaro e da una raffigurazione trasversalmente ignorante e accidiosa, colpevole di svilire completamente la professione.
Passiamo alle conseguenze, dichiaratamente espresse sul finale del film: la ripercussione della diffusione di un medium non più educativo è la sconfitta dell’essere umano, reo di aver “venduto l’anima al diavolo”, mortificando se stesso.
Ci si potrebbe discutere, ma è l’assenza di misura a definirne l’insuccesso: anche non soffermandosi sull’esposizione di una morale ormai -ben venga- parzialmente superata, ciò che davvero tradisce L’uomo che disegnò Dio è il naufragio denigratorio di un racconto che vorrebbe ergersi a suo contrario.
Una storia a circuito chiuso
A L’uomo che disegnò Dio sembra sfuggire un dettaglio importante, pur nella nobilitazione delle suo fine: non basta rappresentare la diversità, in tutte le sue forme, per intessere una riflessione realmente sensibile sulle tematiche trattate. È proprio la sceneggiatura, nel prendersi troppo sul serio, a giocare contro se stessa. A fronte di un disegno di trama che vuole denunciare a chiare lettere le iniquità sociali e mediali dell’etica contemporanea, saltano troppo all’occhio le scivolate ingenue in stereotipizzazioni culturali: di sessualità, queerness, razzismo, abusi e disabilità.
Così il regista gay riceve appellativi femminili e di Pola, etichettata per la sua “mascolinità”, viene disapprovato il desiderio di avere dei figli con la compagna. Gli studenti stranieri del corso monetizzano sulla falsa accusa ai danni dell’insegnante e aspirano ad aprire un centro estetico in cui offrire diverse tipologie di massaggi; Maria lavora al servizio di Emanuele e il cenno alla violenza subita si risolve nella nascita di una storia d’amore con il suo molestatore, velocemente abbozzata senza fornire grandi spiegazioni.
A risollevare le sorti del film, purtroppo, non bastano neanche il cameo del premio Oscar Faye Dunaway o il ritorno sulle scene di Kevin Spacey (curiosamente inserito a margine dell’episodio sulle infondate accuse di molestie sessuali).
Al netto delle sue buone intenzioni, L’uomo che disegnò Dio si smarrisce nella realizzazione involontaria di una storia convulsa e a circuito chiuso.
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