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L’Uomo sulla Strada, opera prima di gentile volubilità

9 minuti di lettura

In un momento di forti polarizzazioni di gusto e sentimenti, lode e disprezzo, posizionarsi nell’accettazione delle zone grigie è un atto gentile, umanamente necessario. L’opera prima di Gianluca Mangiasciutti sceglie di sostare in questa terra di mezzo, dove il dibattito è ammesso e l’evoluzione ancora possibile. Presentato in anteprima ad Alice nella Città in occasione della Festa del Cinema di Roma e disponibile in sala dal 7 dicembre, L’uomo sulla strada ci invita a riposare, delicatamente, nella transitorietà delle nostre contraddizioni sensibili.

Il doppio intreccio di una figlia che ha perso il padre e dell’uomo artefice della sua morte sono i pretesti tematici di una storia di genere che detta soltanto tempi e ritmi di un diverso centro narrativo. Aurora Giovinazzo e Lorenzo Richelmy animano l’esplorazione di un’umanità frammentata in tumulti emotivi solo apparentemente incasellati e incurabili.

L’uomo sulla strada: un viaggio emotivo di voyeuristica attesa

Lo spazio della storia è saturo fin da subito: a otto anni Irene (Aurora Giovinazzo) ha assistito, inerme, alla morte del padre. Gli occhi dell’uomo che l’ha investito, ed è poi fuggito, sono una reminiscenza opaca nella memoria della giovane. L’evanescenza del ricordo e la conseguente incapacità di individuare il colpevole, si tramutano in sensi di colpa che la ragazza tenta di compensare ritraendo nevroticamente le fisionomie degli uomini in cui si imbatte, nella speranza di poter rianimare il volto di chi le ha rubato l’infanzia, il gioco, la vita. Il caso vuole che l’impeto di disegnare non si accenda quando incontra il vero carnefice: Michele (Lorenzo Richelmy), il suo datore di lavoro.

Perno de L’Uomo sulla Strada è la suspense su cui si muove: lo spettatore è complice di una verità che la ragazza ancora non conosce e assiste voyeuristicamente all’evoluzione della relazione umana che si instaura tra i due comprimari, smaniando di attesa per l’effettiva resa dei conti.

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Irene ha diciotto anni nel presente della diegesi, è arrabbiata, aggressiva e incapace di affidarsi a legami emotivamente stabili. Lascia la scuola, il nuoto e la madre per iniziare a lavorare in fabbrica. Michele è un uomo composto, una copia idiosincratica del ragazzo che è stato. Ha preso le redini del padre nell’attività di famiglia: sposato, disilluso e tormentato dalla fatalità delle sue azioni. È nell’incontro fra due anime, nella proiezione dei loro demoni, che i protagonisti re-incontreranno la vita.

L’Uomo sulla Strada è un film che si dà immediatamente, svela le sue carte e poi si tinge di un noir che ammicca a una certa produzione thriller statunitense, con la sua fotografia desaturata diurna e l’estetica neon notturna. Il setting è corroborante di una storia asettica, geometrica, caratterizzata nelle personalità e incisiva in dialoghi e scene madre.

Non è un’opera gentile ma algida, dura e sgraziata. La sua finezza è l’assenza di giudizio nel viaggio sensibile, più che narrativo, che guida gli itinerari esistenziali di due giovani che percepiamo in qualità di persone prima che di personaggi. 

L’uomo sulla Strada si gioca quasi tutto nelle interpretazioni dei suoi attori

Non è nella storia il cuore pulsante del lavoro di Mangiasciutti: l’intreccio è a più riprese sovraccarico di spunti interrotti, archi incompiuti e parzialmente stilizzati. Il tracollo del matrimonio di Michele, la raffigurazione di una moglie un po’ troppo macchiettistica (anche se ben eseguita da Astrid Casali) sono esponenti di linee narrative poco curate, inverosimilmente accelerate in movimenti e risoluzioni.

Al contrario, L’uomo sulla Strada è un film che deve molto all’interpretazione dei suoi attori, all’onestà dei sentimenti che trapela dagli sguardi e i gesti di due ragazzi danneggiati, il cui tempo si è fermato alla tragicità di un evento cardine per l’evolversi delle loro vite. Declinato sensorialmente dai suoi testimoni, l’incidente è veicolato dall’udito di Irene e la vista di Michele, duplicemente mostrato come apertura e cesura di un percorso formativo.

Aurora Giovinazzo aveva già convinto nel Freaks Out di Gabriele Mainetti; qui dà sostanza a una donna consumata dai suoi traumi. La sua intensità è controparte del rimorso di Michele, performativamente trattenuto in una rigidità che a tratti gioca troppo in sottrazione e bidimensionalità. La sceneggiatura lo vuole tenebroso e spesso sembra lavorare più di maniera che di sincerità. È nei momenti condivisi con Irene che riesce a far emergere un’autenticità umana intimamente toccante.

Non privo di difetti ma sicuramente pregevole, L’uomo sulla Strada è un esordio che dà al cinema italiano un respiro internazionale e ha il coraggio di dire qualcosa, spendendosi in un discorso poco retorico e indubbiamente significativo.

Opacità e trasparenza: gli stati del vedere

L’uomo sulla Strada è un saggio di opacità e trasparenza. L’arida e boschiva provincia piemontese punteggia una presenza ricorsiva di superfici riflettenti. Michele è spesso affacciato alle finestre: di casa sua, dell’auto, della fabbrica. Dalla cornice verso l’esterno sembra trarre conclusioni, porsi interrogativi e smarrirsi in assenza di risposte. L’inquadramento scenografico lo inchioda in uno schema comportamentale di rimorso ciclico, divorante e sterile. L’impossibilità di guardare attraverso lo condanna a continuare ad osservare se stesso (in opacità), sentenziando una pena che non può essere espiata.

L’incontro con Irene è un processo rarefatto di educazione alla visione: di sé, dell’altro, del proprio sentire. Tra i due nasce gradualmente un sentimento amoroso, poco collaudato da una scrittura che non dà reale sostanza all’evolversi del legame e finisce, conscia o meno, per restituire un’affinità più che una reale intimità.

La sensazione è quella di assistere a un tenero meccanismo di guarigione che passa attraverso la riscoperta di una leggerezza perduta e proiettata vicendevolmente nell’altro: nella protettività di Michele e nella giovinezza di Irene, il legame sembra consolidarsi come una sorta di genitorialità affettuosa, che sconta i suoi peccati e al contempo recupera se stessa. Come a dire: la bambina che fu, ancora quieta e gioiosa, ritrova in lui una figura -paterna- di cui fidarsi; il ragazzo platinato che fu, scapestrato e ambizioso, ritrova in lei la libertà sacrificata, riparando fragilmente l’errore commesso.

Eludendo l’implicazione amorosa, la vibrazione del riconoscimento umano si sarebbe rivelata più suggestiva; nondimeno l’alchimia delle prove di Giovinazzo e Richelmy è in grado di sopperire alle falle narrative, aprendosi a uno sguardo capace di regalare indulgenza alla mutevolezza dei propri livori patemici.

Quando alle superfici si sostituiscono i corpi e ai ritratti i volti, Irene e Michele riescono davvero a vedere oltre, dentro e attraverso (in trasparenza), congedandosi in un finale che accende riflessioni e accoglie quei grigi volubili che compongono, realmente, le nostre emotività. In chiusura Michele è nuovamente contornato da una finestra, ma questa volta le ante sono aperte, senza interpunzioni, su un mondo in cui redimersi è ancora una possibilità.


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Laureata in Cinema e Comunicazione. Perennemente sedotta dalla necessità di espressione, comprensione e divulgazione di ogni forma comunicativa. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità ed esperienze degli altri

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