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Lady Macbeth Film

Macbeth al cinema, gli adattamenti più belli e quelli davvero orrendi

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20 minuti di lettura

Vi siete mai chiesti quanti adattamenti cinematografici del Macbeth esistono? Ve lo diciamo noi: sono decine e decine, girati da registi diversi e ambientati in luoghi e tempi lontanissimi tra loro. Da Orson Welles a Joel Coen, passando per il maestro Akira Kurosawa e tanti altri, si sprecano i registi che hanno voluto offrire al mondo la loro versione della storia.

All’alba del VII secolo, Shakespeare non avrebbe certo potuto immaginare un successo così longevo per la tragedia che stava scrivendo. Eppure, non dovrebbe sorprendere che Macbeth sia così inflazionato. La sua fortuna è dovuta all’abilità con la quale mette a nudo temi universali come l’ambizione, l’orgoglio, il senso di colpa, il libero arbitrio. Per di più, la tragedia è permeata da elementi magici e sovrannaturali che risvegliano quella curiosità per l’esoterismo da sempre insita nelle profondità dell’animo umano.

macbeth orson welles

Grazie all’epicità di alcune vicende e all’affascinante caratterizzazione dei personaggi, il Macbeth si presta benissimo alla resa cinematografica, a patto che il regista di turno riesca a catturare l’essenza dell’opera e ad aggiungere un guizzo inedito alla rappresentazione.

Macbeth, sulla carta

L’opera di Shakespeare è breve ma sfaccettata. Macbeth è un valoroso guerriero e un nobile scozzese che, tornando vittorioso da una battaglia, si imbatte in tre streghe che elargiscono profezie sul futuro suo e del compagno Banquo: lui diventerà Barone di Cawdor e poi addirittura re, mentre Banquo avrà una sorte più sfortunata ma una prole destinata a regnare sulla Scozia.

Non appena si avvera la prima parte della sua profezia, Macbeth si convince della veridicità delle parole delle streghe. Sobillato dalla moglie (l’iconica Lady Macbeth, personaggio chiave della storia), il nostro Macbeth compie efferati delitti: uccide il re Duncan per spodestarlo, manda dei sicari ad ammazzare Banquo e il figlio (che si salva e diventerà re) e, in seguito, fa uccidere anche moglie e figlio del nobile Macduff.

Il prezzo che i coniugi sanguinari devono scontare è il peso del rimorso, che grava sulla loro stabilità mentale. Celebre ormai la scena del banchetto, durante il quale Macbeth viene terrorizzato dal fantasma di Banquo. Se in quel caso è Lady Macbeth a tenere i nervi saldi, sarà proprio lei, poco dopo, a impazzire in preda ai sensi di colpa (famosissima la scena in cui prova a lavare le mani da macchie di sangue immaginarie), fino alla morte prematura.

Macbeth si rifiugia nelle parole delle streghe, che gli rivelano che nessuno nato da donna potrà ucciderlo e che non potrà essere sconfitto finché la foresta di Birman non avanzerà verso di lui. Ma Macduff e Malcolm, figlio del re Duncan, attaccano Macbeth: i soldati si avvicinano ricoperti di fronde per non dare nell’occhio e raggiungono il castello nemico, dove Macduff, nato con parto cesareo e non propriamente da donna, uccide Macbeth.

Tre trasposizioni imperdibili: Welles, Kurosawa e Polanski

Nella pila dei film tratti dal Macbeth shakespeariano, svettano tre pietre miliari: Macbeth (1948) di Orson Welles, Il trono di sangue (1957) di Akira Kurosawa e Macbeth (The Tragedy of Macbeth, in originale, 1971) di Roman Polanski.

Curiosamente, tutti e tre si discostano dall’originale perché hanno uno sguardo al futuro più pessimista. Il finale non risolve niente, poco importa se il villain è sconfitto: il Male è dietro l’angolo perché le streghe minacciano la quiete del castello dove si è insediato il nuovo re (Welles), gli uomini assetati di potere continuano a ricorrere alle arti oscure (Donaldbain, fratello del nuovo re Malcolm, cerca le sorelle fatali nell’ultima scena del film di Polanski) e la storia della follia omicida di Macbeth si ripeterà, come già lui aveva replicato le azioni criminali dei precedenti sovrani regicidi (Kurosawa ci tiene ad aggiungere questo dettaglio alla sua versione).

Orson Welles fu il primo a portare la tragedia shakespeariana sul grande schermo, girando tutto in meno di un mese e con bassissimo budget. Il risultato fu una versione molto teatrale, che adotta un aspect ratio di 1:1,33 (il televisivo 4:3) per risaltare i primi piani degli attori e ricorre a scenografie di cartapesta e performance abbastanza caricaturali. L’idea di Welles fu di offrire una contrapposizione tra paganesimo medievale e cristianesimo successivo (il set era costellato di croci celtiche, c’è anche un nuovo personaggio, una sorta di religioso invasato), due presenze in lotta tra loro. Seppur molto kitch agli occhi dello spettatore contemporaneo, il Macbeth di Welles (che vede lui stesso nel ruolo principale) resta fedelissimo al testo originale e spinge sui punti giusti.

Neanche dieci anni più tardi, il Maestro Akira Kurosawa tentò di trapiantare il Macbeth nel Medioevo nipponico. Il Trono di Sangue è una versione molto libera della tragedia, ambientata in un Giappone feudale avvolto dalla nebbia. Alcuni personaggi vengono eliminati, diversi dialoghi sono soppressi e il testo è spesso riformulato. Le figure delle tre streghe, inesistenti nella cultura giapponese, sono riassunte in un’unico, maligno spirito della foresta (una yūrei dalle sembianze di una vecchia, sempre intenta a filare). 

L’esperimento di Kurosawa, inoltre, volle unire la tradizione del teatro Nō al cinema: del primo percepiamo la lentezza, le sonorità tipiche, le maschere, ma il regista conosce il mezzo cinematografico e sfrutta le sue potenzialità. Il risultato è dinamico, solenne ed epico allo stesso tempo. È indimenticabile il finale, in cui i rami degli alberi che coprono i guerrieri avanzano nella foschia contro Macbeth, che viene ucciso non da un singolo uomo ma dall’esercito intero, che scaglia su di lui una pioggia di (vere!) frecce.

Degna di nota la rappresentazione di Lady Macbeth/Asaji (Isuzu Yamada). Qui la donna mantiene un’espressione fissa e impassibile, è un ragno che tesse la sua ragnatela in silenzio (Il castello della ragnatela, effettivamente, è la traduzione più simile al titolo originale).

Curiosamente, Asaji non piomba nella follia perché oppressa dal senso di colpa, bensì perché non ha raggiunto i suoi obiettivi e si ritrova le mani inutilmente sporche di sangue. Se Welles aveva incentratro il suo film sullo scontro Cristianesimo vs paganesimo, Kurosawa deve adottare una lente diversa, quella del Buddhismo. Ecco perché sono assenti i concetti di peccato e colpa, inferno e dannazione.

Forte delle innovazioni tecniche del cinema degli anni ’60/’70, Polanski decise di fare un Macbeth nel suo stile. È meno epico e maggiormente focalizzato sulle conseguenze psicologiche delle azioni criminali: il suo Macbeth è tra i più infantili e spaventati mai visti, pronto a inorgoglirsi e cadere sul finale. I personaggi appaiono alienati e sull’orlo della pazzia.

Tuttavia, Polanski non dimentica che l’occhio vuole la sua parte: paesaggi stupendi e costumi ricercati, tinti di colori brillanti e freddi, ci rimandano ad un Medioevo mitico. Il film fu girato da Polanski un paio di anni dopo i tragici eventi di Cielo Drive, dove perse la vita Sharon Tate (moglie del regista, allora incinta). Si trattò di un ritorno alla macchina da presa sofferto, che dette vita ad un Macbeth coperto di sangue rosso vivo, violentissimo e vendicativo. Forse, Polanski si immedesiva in Macduff, privato da Macbeth di moglie e prole, e volle vivere una vendetta vicaria attraverso il film.

Macbeth oggi: due film che hanno fatto rivoltare Shakespeare nella tomba

macbeth john tururro

Si sa che gli americani sentono il bisogno di far succedere tutto nel loro Paese. Si sono presi le invasioni aliene, i supereroi e anche Shakespeare. Corre l’anno 1990, William Reilly pensa che sia una buona idea dirigere una versione americanizzata e contemporanea del Macbeth, trasformando la tragedia in un gangster movie da due soldi (probabilmente sulla scia di Scarface, uscito nel 1983). Nei panni del protagonista c’è un giovane John Turturro che, tra un film dei fratelli Coen e l’altro, accetta di interpretare Macbeth/Mike Battaglia, un mafioso in ascesa verso il successo. Non si sa bene perché, ma, dopo una mattanza in stile mafioso, Macbeth/Mike decide di consultare una cartomante, che gli rivela che presto diventerà padrino. Ruthie, fidanzata di Mike, è la copia sbiadita di Lady Macbeth: lo sprona ad agire, accusandolo di non essere un vero uomo. Uomini d’onore – questo il titolo del film – risulta non solo noioso ma anche ridicolo, grazie al mix fatale tra tono aulico shakespeariano e gergo colloquiale dei mafiosi.

Macbeth non fu risparmiato neanche dagli anni 2000. Tra i tanti orrori che l’inizio del millennio ha lasciato in questo mondo, c’è sicuramente Macbeth – La tragedia dell’ambizione di Geoffrey Wright. Uscito nel 2006, il film trasforma il Macbeth in una storia di spacciatori ambientata nei sobborghi di Melbourne. Un semi sconosciuto Sam Worthington interpreta il protagonista, cocainomane deciso a conquistare il ruolo di leader nella sua gang. Anche qua, c’è una Lady Macbeth davvero appiattita, che il regista caratterizza come drogata che ha perso un figlio e mostra spesso nuda (senza motivo). La visione è un’esperienza mistica: le atmosfere gore, la macchina da presa sempre storta, la ripresa traballante al punto da far venire la nausea, lo slow motion disturbante, ma soprattuto le streghe impersonate da tre studentesse goth sexy, che finiscono in un’orgia a luci rosse con Macbeth.

macbeth la tragedia dell'ambizione

È curioso notare che Reilly e Wright sono caduti nello stesso errore. Se tralasciamo tutti gli altri problemi riscontrabili nelle rispettive pellicole e ci concentriamo sul punto di partenza delle due storie, vediamo che qualcosa non torna. Nell’originale, Macbeth non sarà una persona squisita, ma appare come un guerriero leale e, in fondo, un brav’uomo. È l’ambizione che lo rovina, rendendolo un assassino senza vergogna. È questa l’essenza del Macbeth: come si riduce un uomo per la brama di potere. In entrambe le versioni prese in considerazione qua sopra, Macbeth è già un pluriomicida senza scrupoli, non compie nessuna involuzione, e per questo motivo la costruzione del personaggio non convince affatto.

Due tentativi che invece sono riusciti

Macbeth Joel Coen

Il più recente adattamento del Macbeth è già stato recensito sulle nostre pagine. Si tratta di The Tragedy of Macbeth di Joel Coen, una trasposizione fedele di Shakespeare con una marcata impronta personale. Due attori d’eccezione, Denzel Washington e Frances McDormand, vestono a meraviglia i panni dei coniugi Macbeth.

Il testo originale rimane intatto, ma Coen è consapevole delle possibilità del cinema: uno splendido bianco e nero rimanda al cinema espressionista (Metropolis di Fritz Lang, su tutti), luci e ombre tagliano scenografie che paiono uscite da quadri di De Chirico o di Morandi.

Gli spazi, asettici e gelidi, sono inglobati dalla nebbia. La scelta dell’aspect ratio 1:1,33 ci riporta indietro, al Macbeth teatrale di Welles. Come ha sottolineato il nostro Federico Metri nella sua analisi, The Tragedy of Macbeth è un film rispettoso ma sbalorditivo, che punta sulla creatività del comparto tecnico. Senza dubbio, un film ben riuscito.

Macbeth 2015

Più epico e dall’aria meno spettrale, il Macbeth diretto nel 2015 dall’australiano Justin Kurzel (chissà se aveva visto La Tragedia dell’Ambizione del suo connazionale Geoffrey Wright). Un contorno sovraccarico rischia di schiacciare le performance di Michael Fassbender come Macbeth e di Marion Cotillard come sua Lady: sensazionali le scene di guerra, violente e sporche come dovevano essere nel Medioevo scozzese, mozzafiato i paesaggi ripresi in campo lunghissimo.

Anche qui, a sorprendere davvero è il lato tecnico. La fotografia degli esterni è desaturata, fosca come la nebbia della brughiera, mentre gli interni sono tinti di colori caldi (la luce gialla delle candele, poi il rosso del sangue, che tornerà anche nel fuoco dell’incendio nel finale). La regia si avvale di soluzioni originali, come gli slow motion che isolano i personaggi principali in mezzo ad una folla, e il montaggio riesce a dare il ritmo giusto all’azione. Kurzel aggiunge pochi elementi di novità a livello narrativo, ma confeziona un Macbeth di tutto rispetto.

Per chi è stufo della minestra riscaldata: Lady Macbeth di William Oldroyd

lady macbeth florence pugh

Lady Macbeth è uno dei personaggi shakespeariani più interessanti. La tragedia originale non solo assegna a lei il ruolo di manipolatrice e artefice della rovina di Macbeth, ma costruisce intorno alla sua figura una coltre di mistero. Non si sa niente del suo background e la sua morte avviene out of screen. In ogni film è destinata ad impazzire e a pentirsi. È una sorta di Eva senza la quale Adamo (Macbeth) non avrebbe mai colto la mela del peccato.

Già Welles tiene a sottolineare questo aspetto: il suo film si apre con le streghe plasmano nel fango una figura di uomo (siamo a metà tra il voodoo e la Creazione biblica) e la incoronano re, predicendo il futuro di Adamo/Macbeth. Sarà Lady Macbeth, imprigionata nella visione cristiana di donna tentatrice e peccatrice, a persuadere il marito a compiere delitti (che con tutta probabilità non avrebbe commesso da solo), per poi non poter sopportare la gravità delle sue azioni.

Nella versione di Welles, la nostra Lady, molto teatralmente, si suicida lanciandosi da una scogliera: punizione esemplare, visto che non potrà accedere alle porte del Paradiso, contrariamente a Macbeth, che almeno non si macchia di quest’ultimo peccato cristiano.

Ma Lady Macbeth ha un potenziale infinito e William Oldroyd ha deciso di sfruttarlo nel suo Lady Macbeth (2016), tratto non dalla tragedia shakespeariana ma da Lady Macbeth del Distretto di Mcensk, un racconto di Nikolaj Leskov basato sull’opera. Siamo nel 1865. Una spietata (e sorprendente!) Florence Pugh, stufa di trascorrere una vita da infelice e sottomessa, reclusa in casa dal marito e dal suocero, intraprende una relazione clandestina con uno stalliere. Per poter stare insieme, però, i due amanti si renderanno colpevoli di svariati omicidi. Notiamo che, in questo caso, Lady Macbeth non vuole il potere, vuole la libertà.

C’è una stratificazione del personaggio che va ad arricchirlo: è una donna per la quale inizialmente proviamo compassione, ma si macchia di orrendi crimini, si rivela una perfida manipolatrice e, sul finale, è ben lontana dal pentirsi. Non c’è pazzia (eppure, siamo in un periodo storico in cui era facile essere liquidate come isteriche), anzi, la donna fa di tutto per salvarsi, anche a discapito dell’amante.

Sul finale, nonostante la malvagità, Lady Macbeth (che qui possiede, finalmente, un nome proprio) rimane concentrata, conquista la sua libertà e resta impunita. Il film di Oldroyd è più di un film in costume che precede colori, simmetrie e atmosfere di Ritratto della giovane in fiamme (Sciamma, 2019): offre una prospettiva moderna su un personaggio che pochi (forse Kurosawa) si erano interessati ad approfondire.


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Classe 1998, con una laurea in DAMS. Attualmente studio Cinema, Televisione e Produzione Multimediale a Bologna e mi interesso di comunicazione e marketing. Sempre a corsa tra mille impegni, il cinema resta il vizio a cui non so rinunciare.

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